The hipster is dead: long live the yuccie”. Così, sul finire del 2015, si annunciava il superamento di quel lifestyle divenuto sinonimo di coolness e provocazione, sancendo la liberazione dalla barba e l’avvento di una nuova subcultura, se così oggi si può definire. Ma chi sono gli yuccie, gli hipster e prima di loro i raver, i punk o i goth? È davvero possibile annunciare la morte di una subcultura o è la stessa definizione di questa a decretarne la sua fine?

Il concetto di lifestyle

La tradizione sociologica ha trattato ampiamente il tema degli “stili di vita” ma negli ultimi decenni l’attenzione si è ravvivata per via di un aumento dell’estetizazzione e della stilizzazione della vita quotidiana. Se nelle società tradizionali lo stile di vita sembrava strettamente correlato alla stratificazione economica, come manifestazione del prestigio sociale attraverso simboli e “modi di consumare” secondo una visione del tutto weberiana, con il complessificarsi della società e l’indebolimento della trasmissione verticale dei modelli culturali, lo stile di vita è divenuto via via un concetto legato all’ampliamento delle possibilità di scelta lasciate al singolo.

In questo contesto il modo di vivere e spendere il tempo libero, le abitudini di consumo e alimentazione, il modo di vestire, ascoltare musica o assistere agli spettacoli sono divenute delle forme di espressione di sé e della propria individualità. Il concetto di lifestyle rimanda dunque all’idea che la società sia una composizione di gusti, consumi, pratiche strettamente connesse tra loro, a cui l’individuo assegna un senso unitario, che si presenta come modello distintivo condiviso all’interno di una collettività, senza dipendere da una predeterminata condizione socio-strutturale o cognitivo-valoriale trasmessa verticalmente dai modelli dominanti.

Le origini del concetto di subcultura

Grafico esemplificativo del concetto di subcultura
Grafico esemplificativo del concetto di subcultura

Tra la fine dell’800 e gli anni Settanta del ‘900 la scuola di Chicago iniziò ad elaborare le prime teorie sul concetto di subcultura concentrando le sue attenzioni sulle cosiddette subculture devianti, cioè su quei gruppi dai comportamenti collocabili al di fuori delle norme sociali e legali. Secondo Albert Cohen le subculture consistevano in settori di popolazione che si davano norme, risorse e valori alternativi nel tentativo di superare i problemi derivanti dall’incapacità di raggiungere quegli obiettivi imposti dalla società mainstream. Frutto di scelte compiute dai membri stessi, le subculture dipendevano anche da un processo di etichettamento da parte della società: tanto più venivano riconosciute e distinte dall’esterno, quanto più i suoi membri diventavano dipendenti gli uni dagli altri nel convalidare il loro stile di vita.

Vignetta che rappresenta alcuni idealtipi subculturali
Vignetta che rappresenta alcuni idealtipi subculturali

A partire da queste analisi, il Centre for Contemporary Studies (CCCS) della scuola di Birmingham, fondata da Richard Hoggart nel 1964, si concentrò sulle subculture giovanili e spettacolari studiando l’intersezione tra la generazione e la classe sociale, allo scopo di comprendere il tentativo di differenziazione dalla cultura dominante e dalla cultura dei genitori. Secondo il CCCS, all’inizio del Novecento si viveva come classe operaia ma il benessere raggiunto, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, portò ad una differenza via via crescente tra i giovani e i loro genitori in termini di consumi, tempo libero e spazi. La comunità operaia venne sempre meno, mentre crebbe la volontà di crearne una nuova. I giovani cercarono così di rompere le barriere presenti tra la middle e la working class ma non scelsero la rivoluzione: piuttosto che infrangere le norme sociali, decisero di infrangere le norme creando spazi, look, modelli culturali, stili.

E proprio lo stile divenne il tratto distintivo del sovvertimento simbolico di quei significati assegnati dalla cultura di massa agli oggetti di uso quotidiano. Nonostante il CCCS ritenesse però possibile l’adozione di uno stile distintivo come forma di separazione dalla cultura mainstream, in realtà il rapporto tra l’industria culturale e le subculture restò ambiguo: le subculture facendo propri i prodotti di massa costruivano il loro stile distintivo a partire da questi, l’industria culturale mercificando ed etichettando le subculture ne distruggevano il carattere di resistenza decretandone il loro riassorbimento.

Le subculture postmoderne

La copertina del libro "The time of the tribes" di Michel Mafessoli
La copertina del libro “The time of the tribes” di Michel Maffesoli

Nella seconda metà degli anni Novanta, sono stati proposti dei concetti alternativi a quello di subcultura, poiché pareva implicare comunque un forte legame tra la posizione sociale, lo stile e i gusti. Michel Maffesoli introdusse il concetto di neo-tribes per descrivere una forma sociale dalla natura fluida, senza obiettivi espliciti, dai confini non netti seppure distinguibile dall’ambiente esterno. L’identità di queste tribù si fonda sui rituali condivisi e sulle emozioni vissute in comune, dunque si tratta di un’appartenenza temporanea e fluttuante, basata sulla scelta individuale; gli elementi visibili e i movimenti emotivi sono le caratteristiche distintive dei vari gruppi.

Un altro concetto divenuto importante è quello di scenes, definibili come “grappoli di attività” che designano contatti diretti faccia a faccia tra i membri. Gli individui decidono di incontrarsi in certi spazi a cui assegnano determinati significati. È un quadro di relazioni che nasce da sensibilità condivise entro un certo territorio, i cui confini sono elastici. Il concetto di scenes è olistico e raccoglie elementi differenti: i gusti si riproducono per spontaneità individuale, ma anche all’interno delle istituzioni (infrastrutture rigide) e delle reti sociali (infrastrutture mobili).

A partire da questi concetti sarà possibile illustrare le subculture che sono divenute nel corso degli ultimi decenni oggetto di studio e di attenzione non solo da parte di studiosi ma anche dei mass media.

Alice Porracchio

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