Dialettica dell’illuminismo” scritto nel 1947 in collaborazione tra Adorno e Horkheimer, è un’opera filosofica composta da una serie di saggi. I due esponenti della Scuola di Francoforte misero qui a punto la più raffinata critica della cultura occidentale del Novecento, elaborando una riflessione sul modo in cui la società occidentale ha trasformato il suo potenziale di emancipazione e dedicando una parte considerevole dell’opera a uno studio teorico sulla “questione antisemita”, ovvero sulla situazione in cui si trovavano gli ebrei agli inizi del ‘900. In quell’epoca molti hanno visto un pessimismo radicale, quasi una disperazione assoluta: in realtà, leggendo in trasparenza il testo principale di Adorno e Horkheimer, si può notare come esso sia percorso non già da disperazione, bensì da sconsolazione e sconforto. L’intera “Dialettica dell’Illuminismo” è percorsa dalla speranza che, qualora l’Illuminismo riesca a capirsi meglio, esso possa parzialmente sottrarsi a quella domanda martellante che compare fin dalle prime pagine dell’opera: “perché l’umanità, invece di entrare in uno stato veramente umano, sprofonda in un nuovo genere di barbarie?”.

Critica all’industria culturale

Dialettica dell'illuminismo di Adorno e HorkheimerIl termine “industria culturale” è un paradigma socio-culturale introdotto e usato per la prima volta da Max Horkheimer e Theodor Adorno.

Film, radio e settimanali costituiscono un sistema. Ogni settore è armonizzato in sé e tutti fra loro […] Film e radio non hanno più bisogno di spacciarsi per arte. La verità è che non sono altro che affari, serve loro da ideologia, che dovrebbe legittimare gli scarti che producono volutamente“.
(Horkheimer e Adorno, 1947; trad. it. 1966, pp. 130-131).

La nascita dell’industria culturale non è un evento preciso né una categoria. È una serie di procedimenti che legano la cultura di massa all’avvento dei media. Questo sistema, legato a processi di standardizzazione e razionalizzazione distributiva per rispondere alle esigenze di un mercato di massa, è definito industriale perché assimilato alle forme organizzative dell’industria. Infatti, per i due autori il potere della tecnica era il potere dei ricchi e quindi la tecnologia era vista come legittimazione del potere. Adorno e Horkheimer collegano l’industria culturale alla struttura americana, alla cultura di massa e al capitalismo. La cultura diventa merce di scambio. La radio e la televisione portano l’utente ad atrofizzare l’immaginazione mentre il cinema porta all’annullamento della personalità. Il divertimento esisteva già da tempo prima di essa: ora viene ripreso e manovrato dall’alto e sollevato al livello dei tempi. Allo stesso tempo, però, è guidata anch’essa da un potere economico.

Il dibattito sull’industria culturale

Edgar Morin con il suo “L’esprit du temps“, è arrivato a sostenere che l’industria culturale non fosse solo uno strumento ideologico utilizzato per manipolare le coscienze, ma anche un’enorme officina di elaborazioni dei desideri collettivi. Questo perché essa utilizza degli archetipi, cioè strutture organizzate che permettono all’individuo di ordinare i propri sogni. Quindi alla massa vengono riconosciuti i propri sogni. Secondo lo studioso Noam Chomsky, le culture totalitarie del ‘900 utilizzavano prodotti standardizzati dell’industria culturale per dominare gli individui. Infine, Walter Benjamin: il suo capolavoro “L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica” si basa sul concetto che il prodotto artistico, rispetto al passato, ha perso la sua “aura”, ovvero la sua “sacralità”. Con l’avvento della tecnologia, le opere diventano “riproducili”.

Barbara Petrano

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