Alcuni studiosi ritengono che l’albo per i sociologi sia soltanto un miraggio, fuori tempo massimo in vista della presunta liberalizzazione delle professioni. Altri, invece, credono che il riconoscimento professionale sia la panacea di tutti i mali, capace quindi di creare occupazione grazie al sistema di tutela che naturalmente verrebbe a crearsi. Nel mezzo ci sono gli scettici, coloro che portano avanti la tesi secondo la quale il sapere sociologico non sia stato in grado di produrre un sapere più propriamente professionale e che quindi la vera sfida è inerente alla definizione del sociologo nella società postmoderna.
Il sociologo, in Italia, nasce intorno alla fine degli anni ’60 in concomitanza con la creazione del primo corso di studi all’Università di Trento. Fortemente accademica, la sociologia rimane relegata al settore della ricerca non trovando una corrispondenza sul mercato del lavoro se non prevalentemente nell’ambito della Pubblica Amministrazione. Non si è certi di cosa sia accaduto realmente tra gli anni ‘80 e ‘90, quando poi sono emersi gli studi della Scuola Chicago i quali hanno ampliato le frontiere della materia con l’introduzione di temi come la sicurezza sociale, le reti e la tutela ambientale. Molti studiosi ritengono che l’autonomia professionale dei sociologi sia stata privata da alcune scienze come l’economia, la psicologia e il servizio sociale che di fatto, hanno preso in prestito gran parte del suo operato, depauperizzandolo. Un dato comunque è certo ovvero che molti laureati in sociologia non trovano un facile accesso al mercato del lavoro. Forse la compartimentazione delle competenze potrebbe essere un elemento fondante l’inaccessibilità al lavoro oppure il contrario, potrebbe essere la genericità della laurea – il dottore in sociologia può occuparsi di comunicazione, di risorse umane, di project management, di consulenza di analisi mercato – a causare la cronica debolezza occupazionale.
La laurea in sociologia ha il più alto tasso di disoccupazione e i più fortunati invece, nella maggioranza dei casi si trovano a lavorare in un campo non coerente con il percorso di studi intrapreso. Ancora, i sociologi non trovano corsi dispecializzazione dopo la laurea e questo costringe a fare altri esami o, nella peggiore delle ipotesi, a dover conseguire un ulteriore titolo di studio. Il caso del TFA è emblematico perché il dottore in sociologia non può insegnare la sua materia e in più è chiamato a colmare crediti formativi in ambito filosofico-psicologico per accedere a tutti gli effetti all’esame di abilitazione dell’insegnamento. Allo stesso modo, il solo titolo di laurea non basta per intraprendere la carriera nel management: non a caso, il settore delle risorse umane, per fare un esempio, risulta accessibile facilmente agli economisti o ai giuristi ma reso inaccessibile ai sociologi i quali sono costretti ad acquisire ulteriori titoli e master. A questo si aggiunge l’enorme precarietà cui è sottoposto il sociologo se impiegato nel terzo settore: talvolta come educatore, oppure come coordinatore, o semplice operatore, il sociologo delle cooperative si divide tra queste mansioni a seconda della contingenza e, di fatto, non conoscerà mai una stabilità occupazionale.
Insomma, a fronte di queste considerazioni, la questione non riguarda tanto l’ipotesi se il riconoscimento professionale può garantire o meno l’occupazione ma la domanda vera è questa: c’è posto per i sociologi nel sistema economico e di produzione italiana? I sociologi, oltre la ricerca, possono aspirare ad un’autonomia professionale al pari di altre figure, come l’economista, lo psicologo, il pedagogista? Infine, in seguito alle nuove forme di economia quali la sharing economy, l’economia digitale e la social innovation, il ruolo del sociologo quale reale funzione potrebbe acquisire? Questi sono i temi fondamentali alle quali la società, gli studenti, i sociologi, l’accademia e soprattutto le associazioni di categoria dovrebbero interrogarsi e cercare di rispondere. Il sapere sociologico può e deve servire a quello professionale altrimenti si rischia, come già sta accadendo, che le iscrizioni alle università calino e che i laureati non diventino mai dei veri e propri lavoratori, accontentandosi della saltuarietà e della precarietà.
Flora Frate