Gli studi di cultura visuale hanno cercato un termine medio fra la visione intesa in senso puramente fisiologico e naturalistico e la produzione di immagini storicamente e culturalmente condizionata: lo hanno trovato nella nozione di “sguardo”.
Salles e lo sguardo
Georges Salles è il primo autore a intitolare espressamente una propria opera al concetto di “regard“, secondo il quale “ogni occhio è ossessionato, il nostro come quello dei popoli primitivi. A ogni istante esso modella il mondo secondo lo schema del suo cosmo“. Esso è dotato non solo di capacità percettive ma anche e soprattutto di modellizzazione attiva e culturalmente condizionata del reale. La sua opera può essere letta come un tentativo di comprendere la dimensione storica della percezione. Lo sguardo di cui parla Salles è lo sguardo dell’amateur delle belle arti, che gusta sensibilmente un’immagine raffinata con una disposizione simile a quella che il buongustaio assumerebbe nei confronti di un’opera d’arte culinaria. Ma questa discussione umanistica riconosciuta allo sguardo era destinata a subire duri colpi nel contesto della riflessione francese del ‘900.
Mimetismo animale
In quello stesso periodo Roger Caillois conduceva indagini intorno ai complessi significati dei fenomeni di mimetismo, prendendo in esame in particolare gli ocelli animali, come si trovano per esempio sulle ali delle farfalle o sul dorso di alcuni insetti. Tali formazioni circolari, spesso di colori sgargianti, non intimidiscono i predatori perché assomigliano agli occhi di un predatore ancora più pericoloso; piuttosto il contrario, sono gli occhi a spaventare perché rassomigliano a ocelli. La forma circolare, fissa, brillante, sovradimensionata, è un ipnotico dispositivo di fascinazione. Quel che sembra accomunare questi lavori è lo sforzo di disaccoppiare lo sguardo dal suo legame apparentemente strutturale con l’occhio, mettendo in discussione la tradizionale opposizione binaria fra un soggetto attivo riguardante (lo spettatore) e un oggetto passivo riguardato (l’immagine). Quel che si instaura è piuttosto una relazione di quasi intersoggettività tra i fruitori e le immagini.
Sguardi dipinti
Un’attenzione tutta particolare è stata riservata allo sguardo che ci proviene dai volti ritratti e autoritratti. Vero pioniere nell’analisi degli sguardi rappresentati nei dipinti è stato, ai primi del ‘900, Alois Riegl che, studiando l’evoluzione del ritratto di gruppo olandese – e in particolare la celebre “Anatomia del dottor Tulp” di Rembrandt (1632) -, ha distinto fra “l’unità interna” (ottenuta dai volti che nel gruppo si guardano reciprocamente) e “l’unità esterna” (istituita tramite lo sguardo che uno dei personaggi del gruppo rivolge direttamente nei confronti dello spettatore esterno al quadro). Il topos dello sguardo che l’immagine indirizza allo spettatore come se fosse un organismo vivente ha goduto di una notevole fortuna letteraria. Fra i numerosi esempi potremmo citare “Il ritratto ovale” di Edgar Allan Poe e “Il ritratto di Dorian Grey” di Oscar Wilde.
Il ruolo della morte
L’immagine nasce costitutivamente insieme alla morte e alla sua presa di coscienza da parte dell’essere umano. La consapevolezza che il nostro corpo è voltato alla decadenza, alla decomposizione e quindi alla sparizione, si accompagna nelle varie culture all’elaborazione di diverse tanatoprassi volte alla gestione iconica del cadavere, all’elaborazione, cioè di un antidoto che opponendosi alla nullificazione possa rappresentare un sostituto durevole. Si riscontrano anche sotto il profilo etimologico importanti riscontri a riguardo: l’idolo greco rinvia allo spettro o al fantasma dei morti, nel diritto romano lo ius imaginum era il diritto riservato ai nobili di esporre pubblicamente le maschere funebri degli antenati. In epoca medievale il termine “rappresentazione” si riferisce a una figura modellata e dipinta che “sta per” il defunto durante le esequie. Sempre nell’esperienza della morte appare l’immagine fotografica: essa nasce nel cimitero e subito si dedica a immortalare i cadaveri, spesso confezionati in modo tale da far apparire il defunto dormiente. Ma a ben vedere anche il selfie ci mette di fronte ad un tempo che irrimediabilmente è stato. Per dirla con Barthes, la fotografia è un inquietante ritorno del morto.
Linguaggio universale
La cultura dell’iconosfera è legata alle religioni. La stessa etimologia “religio” rinvierebbe all’atto del “religare“, riunire una comunità attorno ad una divinità e tale funzione si compie ancora più facilmente in presenza di un oggetto visibile, una rappresentazione iconica. Già Eraclito aveva ironizzato sugli adoratori di immagini sacre: si mettono a pregare siffatte immagini come se uno si mettesse a chiacchierare con le mura delle case, ignorando chi siano gli dei e gli eroi. Quanto alle religioni monoteistiche, ebraica e islamica, è opinione comune che siano entrambe iconofobe e anticoniche. Il cristianesimo, invece, si caratterizza per una complessa strategia rappresentativa che ha condizionato la storia delle immagini della civiltà occidentale. Dio si fa carne in Cristo, ma anche nel velo in cui lascia traccia del suo volto. Fin dai primi secoli del cristianesimo, è diventata chiara la consapevolezza delle potenzialità dell’immagine. Lo stesso S. Agostino afferma: “Quando vedi una pittura ti basta vedere per lodare, quando vedi uno scritto, non ti basta vedere“. L’immagine, quale linguaggio universale, può servire come strumento di evangelizzazione tanto più efficace del testo scritto che presuppone la conoscenza della lingua e un buon livello di scolarità.
Carmen Pupo
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