Per gentile concessione dell'autore, Thomas Leoncini, pubblichiamo un estratto del suo ultimo testo "Forte come la vita, liquido come l'amore", edito da Solferino.
L’amore tossico è il nostro desiderio di cadere, di morire, di mollare tutto. È la nostra pulsione all’autodistruzione che si mischia con l’abitudine e fa sembrare dolce il veleno, perché è un gusto che conosciamo e ci rassicura. Ogni abitudine è prevedibile: più ci scopriamo lasciati a noi stessi, incerti, liquidi, parte di una società sconosciuta e senza una logica, più un’abitudine –qualunque essa sia– diventa per noi preziosa. L’abitudine ci paralizza ed è il veleno che ci fa sentire a casa. Sentirci a casa ci fa illudere di essere amati, ma è uno dei più pericolosi controsensi della nostra specie. L’amore è altrove.

L’amore non si trova, l’amore si produce.
Molte persone sono oggi portate a credere che l’amore sia un colpo di fortuna: «Che fortuna che avete a esservi trovati, siete fatti l’uno per l’altra». E tutto questo è certamente l’effetto inconscio indotto da una società che ha smesso di produrre per dedicarsi a insinuare nei suoi membri sempre nuovi desideri di consumo, e quasi mai di produzione. L’amore trovato è qualcosa alla portata di tutti, mentre l’amore prodotto richiede sacrifici, cure, progetti da condividere per mantenerlo vivo e anche molte «riparazioni» e fatiche: cosa che invece non vale per ciò che si può scartare e rimpiazzare.
È dunque molto più consono ai tempi credere in un amore legato alla coincidenza di un incontro, piuttosto che allo sforzo di una creazione da custodire e condividere. Papa Francesco mi ha confidato come da giovane una delle sue più grandi paure fosse quella di non sentirsi amato. Aver bisogno d’amore non è una fragilità; se vogliamo parlare di fragilità, allora quella più grande è «essere vivi». Solo i morti possono permettersi di non essere fragili. Siamo fragili per definizione, in quanto viventi.
L’amore conta
Abbiamo necessità costanti a cui in molti casi nemmeno sappiamo dare un nome, coltiviamo l’ininterrotta illusione di avere un posto nel mondo, di essere capaci di gestire il nostro presente e indirizzare il futuro, anche se poi basta un piccolo imprevisto per farci capire quanto siamo volatili. La fragilità sta piuttosto nel credere di non aver bisogno d’amore (inteso nella sua accezione più ampia), poiché porterà con sé la più grande delusione, ancora latente, ma che arriverà quando meno ce la si aspetta. Quando uno schiaffo sonoro destabilizzerà in un attimo ogni certezza e anche l’individualista più convinto dovrà ricredersi di fronte alla necessità di sentirsi amato.

Ma cosa significa davvero sentirsi amati? Significa soprattutto essere liberati dal tormento dell’«amore premio». Quante volte ci domandiamo: «Ci meritiamo questo amore? Abbiamo fatto abbastanza per meritarci l’amore di qualcuno?». L’«amore premio» non è amore in senso profondo, è contrabbando di emozione a tempo, l’equivalente del rilassamento post-stress, un riposo obbligato che può far recuperare le forze ma non è pace, è solo una pausa in attesa del nuovo stress. Questa è frenesia d’amore, è illusione che al posto dell’ossigeno respira altre illusioni. L’«amore premio» è bulimia d’amore e di approvazione, dipendenza che continuamente travalica il limite dell’assuefazione, eterna altalena tra ciò che fa stare bene e ciò che invece danneggia. Molta dell’inquietudine in amore è data dalla trasformazione dell’attrazione in possesso e dall’attribuzione della parola «amore» alla mera necessità di possesso.
«Ne ho bisogno quindi la amo, penso sempre a lei quindi la amo.»
Chi pretende il possesso del partner si autocondanna a un fallimento: il rapporto si nutre di un’aspettativa costante, molto alta, per cui ci si attende che il partner debba per forza di cose (per forza d’amore, pensiamo inconsciamente) essere la risposta ai nostri bisogni. Qui interviene inevitabilmente quell’andirivieni di calci al petto che non si possono prevedere e che continuano finché non stramazzi a terra: picchiamo l’amore più o meno tutti i giorni attraverso il sentimento chiamato gelosia, che non risponde ai nostri voleri consci, ma piuttosto ai desideri inconsci. Il volere è una caratteristica umana rassicurante: il nostro ego accarezza i nostri voleri e cerca di assecondarci nella loro realizzazione.
Se un nostro volere non è raggiungibile, per esempio, la razionalità potrà venirci in soccorso e lenire, insieme al tempo, la forza del nostro «voler essere», «voler diventare», oppure aiutarci a trovare scorciatoie o strade simili più raggiungibili. Il desiderio invece è qualcosa le cui radici sono quasi sempre ignote. È una pulsione interna rispetto alla quale noi siamo impotenti e, nella maggior parte dei casi, al suo cospetto il nostro ego e il nostro amor proprio soccombono inermi. Qui si colloca il fulcro della paura nei confronti dell’amore: io posso desiderare anche ciò che odio, ma di certo non posso volere ciò che non voglio.
Bauman e l’esilio psicologico
Una delle più grandi paure dell’uomo contemporaneo è l’«esilio psicologico» , quel tipo di sensazione che porta a un pensiero fisso: «Mi sento straniero, mi sento alieno a casa mia». Siamo un po’ tutti, in quest’epoca, dei migranti psicologici. Tuttavia, come scriveva Bauman, «non tutto il male oscuro e scoraggiante della solitudine e dell’alienazione viene per nuocere». L’esilio psicologico è una nuova prova di libertà, ma com’è noto la libertà fa molta paura. La stessa perdita dell’inclusione confortevole e armoniosa dello spazio e l’impossibilità di sentirsi a casa in quello stesso spazio, consentono all’esiliato psicologico di vivere nel profondo la condizione attuale di questo mondo, mentre molti altri restano a nuotare sulla superficie del loro inconsapevole esilio e vengono inghiottiti dall’insoddisfazione e dalla depressione senza comprendere a fondo il motivo del loro malessere.
La paura dell’esilio psicologico è però molto forte e, per non finire scartati dalla società, in primo luogo i giovani sono costretti a sfoggiare continuamente la loro enorme capacità di acquistare, di potersi aggiornare, in breve la possibilità di scartare qualcosa al posto di se stessi. Questo comportamento non merita una critica a priori, poiché si rivela quanto mai necessario per illudersi di restare a galla nell’epoca in cui sembra un difetto aver bisogno di comunità. Il nostro bisogno di comunità nasce dal fatto che l’essere umano ha la necessità di sentirsi apprezzato e voluto bene.
Come posso però costruire qualcosa in questa società?
Solo con l’individualismo. Ecco il paradosso, per noi irrisolvibile, della società liquida, quello che ci fa costantemente sbagliare e che soprattutto riaccende in noi l’eterno dilemma, apparentemente senza soluzione, tra libertà e sicurezza. Più siamo sicuri, meno siamo liberi, e viceversa: più libertà equivale a meno sicurezza.
Thomas Leoncini