Con l’abrogazione del Reddito di Cittadinanza in favore dell’introduzione del nuovo Assegno di Inclusione, l’Italia conferma la sua resistenza culturale e politica all’introduzione di misure universalistiche per i poveri, in deroga alla legislazione nazionale ed europea, optando invece per una selettività delle politiche pubbliche. Partendo dai dati a disposizione, proviamo a esaminare i motivi del calo di beneficiari della nuova misura rispetto alla precedente, risultato di diverse problematiche insite nella misura stessa.

Il passaggio da reddito di cittadinanza ad assegno di inclusione

La chiusura dell’esperienza italiana del Reddito di Cittadinanza ha interessato una misura che nell’ultimo mese della sua implementazione contava ancora 598mila nuclei familiari (Inps 2024) tra i suoi beneficiari, e che nel 2021 era arrivata quasi a toccare quota 4 milioni di persone coinvolte. Dei risparmi di spesa conseguenti alla sua abrogazione, stimati in circa 1,7 miliardi di euro (Banca d’Italia 2023, citato in Baldini e Toso 2024), sono stati destinati al Fondo per il sostegno della povertà e inclusione attiva circa 7.076,10 mln di euro per il 2024 (Camera dei deputati 2023), di modo da poter finanziare nuove misure in merito. Con il Decreto Lavoro, infatti, sono state definite le modalità di implementazione di alcune azioni per l’inclusione sociale e l’accesso al mondo del lavoro rivolte a famiglie, lavoratori e imprese, tra cui spicca l’Assegno di Inclusione.

L’Assegno di Inclusione è definito come “misura nazionale di contrasto alla povertà, alla fragilità e all’esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di inserimento sociale, nonché di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro” (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali 2023). I destinatari sono i nuclei familiari aventi almeno un componente con disabilità, minorenne, con almeno 60 anni di età o in condizione di svantaggio e inserito in un programma di cura e assistenza dei servizi sociosanitari territoriali certificato dalla pubblica amministrazione.

Chi può beneficiare dell’assegno di inclusione?

Il componente del nucleo familiare beneficiario di AdI, attivabile al lavoro, preso in carico dai servizi per il lavoro competenti, che rifiuti senza giustificato motivo un’offerta di lavoro con determinate caratteristiche viene sanzionato con la perdita del beneficio. In particolare, se l’offerta in questione è a tempo indeterminato (sia a tempo pieno che parziale, purché non inferiore al 60% dell’orario a tempo pieno), non ci sono limiti di distanza nell’ambito del territorio nazionale a meno della presenza nel nucleo di figli minori di quattordici anni. Se invece la stessa è a tempo determinato, il luogo di lavoro non deve distare più di 80 chilometri dal domicilio o essere raggiungibile entro 120 minuti con i mezzi di trasporto pubblici.

Il beneficio economico consiste in una integrazione del reddito familiare fino a euro 6mila annui (euro 7.560,00 annui in condizioni particolari), a cui bisogna aggiungere un eventuale contributo per l’affitto dell’immobile dove risiede il nucleo per un importo pari all’ammontare del canone annuo di locazione fino a un massimo di euro 3.360,00 annui, erogata per un massimo di 18 mesi rinnovabili per ulteriori 12 mesi.

I dati a disposizione finora a riguardo della riforma in questione ci permettono di trarre alcuni spunti di riflessione su alcune tendenze in atto a partire da luglio 2023, ovvero da quando è iniziato il graduale passaggio di consegne con il Reddito di Cittadinanza. Ne parleremo nello specifico nel prossimo paragrafo.

Crollano i beneficiari del sussidio: perché?

Non possiamo ancora fare un confronto approfondito tra una misura durata quattro anni, come il Reddito di Cittadinanza, e una misura iniziata a gennaio di quest’anno. In modo provvisorio, però, possiamo considerare gli ultimi dati disponibili sulle due misure, rilevando come ci sia stato un crollo nei beneficiari che coincide con l’aumento dei requisiti per ottenere il beneficio. Nel mese di dicembre 2023, infatti, i nuclei beneficiari di RdC/Pensione di Cittadinanza erano un totale di 722 mila (Inps 2024), mentre i dati di marzo 2024 ci parlano di circa 500.000 beneficiari dell’AdI. Il calo, oltretutto, conferma una tendenza in atto da luglio 2023, quando, in conseguenza della riduzione a sette mensilità della durata massima del beneficio nel 2023 a seguito della legge di bilancio dello stesso anno, dagli 1,7 milioni di nuclei percettori del 2022 si era passati a poco più di un milione (Inps 2024).

Nonostante ciò, questo non è coinciso con un calo della spesa pubblica: la riforma che ha istituito l’AdI prevede uno stanziamento per finanziarla (assieme al Supporto alla formazione e il lavoro e gli incentivi per l’assunzione dei beneficiari per le imprese) persino superiore a quello originariamente stabilito per finanziare il RdC e la PdC, nonché incrementale con una previsione decennale (Dagnino et al. 2023). Nei programmi governativi, infatti, non c’è nessun disegno che mira alla soppressione dei sussidi per il contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, quanto più che altro la volontà di operare una selezione dei beneficiari intervenendo direttamente sui requisiti per accedervi.

Il principio universalistico

La riforma, di fatto, deroga al principio universalistico, il quale dovrebbe garantire alle persone e alle famiglie che hanno un reddito al di sotto di una certa soglia il diritto a ricevere un beneficio economico adeguato indipendentemente dalla loro età, genere, occupazione e luogo di residenza (Russo 2024). Così facendo, essa pone l’Italia come eccezione nel panorama comunitario, in contro-tendenza con le recenti raccomandazioni della Commissione Europea (2022), che individua nelle politiche di reddito minimo lo “strumento fondamentale nel raggiungimento dell’obiettivo strategico di riduzione di 15 milioni di persone a rischio di povertà ed esclusione entro il 2030” (Busilacchi 2023). Ad oggi, il numero di nuclei familiare in condizione di povertà assoluta in Italia è di circa 2,2 milioni, pari a circa l’8,3% del totale (Alleanza contro la povertà 2024).

Al 26 gennaio 2024, invece, erano solo 287.704 le domande accolte dall’Inps per il nuovo sussidio, contro ben 117.461 domande respinte per mancanza di requisiti. Si tratta di dati estremamente esigui anche per una misura appena partita, e non è ben chiaro se il legislatore interverrà a riguardo, magari ridefinendo i requisiti per beneficiarne. Il rischio, se non verranno presi provvedimenti, è quello di un aumento del tasso di povertà tra la popolazione attiva, in una nazione, la nostra, che su questo aspetto risulta già essere tra le peggiori dei paesi Ocse (2024). La discesa verso uno scenario peggiore, dunque, non è assolutamente auspicabile: non è ben chiaro, però, se questo pericolo sia stato davvero recepito dal governo, e di conseguenza cosa possiamo aspettarci per il futuro delle politiche sociali.

Le nuove condizioni per accedere al contributo

Il motivo del calo dei beneficiari del nuovo sussidio potrebbe essere spiegato dall’introduzione di alcune condizionalità per i beneficiari occupabili e senza carichi di cura (Dagnino et al. 2023).  La descrizione del sussidio, infatti, risalta particolarmente la dimensione lavoristica dello stesso: le politiche attive del lavoro assurgono al ruolo di “mero strumento di emancipazione della condizione di disagio” (Ivi, 119) e sono messe allo stesso piano della dimensione economica e socio- assistenziale. Così facendo, “sembra … volersi ribadire il differente ambito di destinatari … chiarendo in modo inequivocabile che il bacino di potenziali beneficiari … è costituito da soggetti appartenenti a nuclei familiari che, oltre alla disagiata condizione economica … presentano altri fattori di svantaggio che li rendono unicamente meritevoli della maggiore tutela”.

Non è più, dunque, solo il criterio reddituale ad essere preso in considerazione: la cosiddetta riforma Meloni retrocede le politiche di contrasto alla povertà alla categorialità, il principio per cui le prestazioni dello stato sociale sono accessibili, pur verificandosi l’evento sfavorevole contro il cui rischio lo schema di protezione sociale è pensato, solo se si appartiene ad una determinata categoria meritevole di tutela (Sacchi et al. 2023).  

Presupposti per condizioni inique?

Così facendo, però, essa crea i presupposti per il verificarsi di una serie di condizioni inique: ad esempio, una persona sola di età non inferiore a 60 anni può ricevere il contributo senza condizionalità, purché abbia un reddito pari o inferiore ad euro 6mila, mentre una coppia di adulti licenziati di età minore ai 60 anni che non percepiscono reddito non sono beneficiari della misura (Dagnino et al. 2023). Il rischio è quello che l’utilizzo di criteri di accesso di natura familiare porti con sé l’idea che la cura di bambini piccoli o di persone anziane non sia in nessun caso compatibile con l’impegno lavorativo, mentre invece le persone con figli in età scolare non incontrano difficoltà di conciliazione vita-lavoro.

In questa maniera, la riforma fallisce sia un intervento in favore del tema dei servizi di conciliazione, sia il miglioramento degli aspetti di contesto che incidono sull’effettiva occupabilità dei soggetti. Da un lato, vengono mortificate le possibilità di attivazione lavorativa dei percettori, i quali in virtù delle loro responsabilità familiari appaiono come automaticamente esentati dalle condizionalità, mentre al contrario “chi – non avendo simili responsabilità- non ha <<scuse>> per non (cercare di) rientrare nel mercato del lavoro” (Ivi, 107) viene individualmente responsabilizzato della propria attivazione lavorativa.

La natura workfare della riforma

In secondo luogo, il Decreto Lavoro prevede una revisione della disciplina dell’offerta congrua drasticamente più restrittiva dei precedenti nelle politiche del lavoro e sociali italiane. A questo proposito, risulta evidente la natura di workfare della riforma, che si inserisce all’interno di un sistema sociale basato su uno scambio tra la prestazione assistenziale percepita dal cittadino e una prestazione lavorativa resa dallo stesso in favore della collettività (Modica Scala 2022).

Nelle politiche sociali di contrasto alla disoccupazione questo principio viene spesso presentato come alternativa alla semplice e passiva erogazione di sussidi monetari (Colombo 2015). La criticità, però, qui, è insita nelle modalità con cui esso viene attuato, che appaiono in completa contraddizione con ogni obiettivo di inclusione lavorativa “reale e realistica” (Sacchi et al. 2023, 109), visto che comporterebbe per un membro adulto con responsabilità genitoriali la disponibilità a trasferirsi per lavoro indipendentemente dalla mansione e dalla retribuzione, anche nel caso in cui i figli siano minorenni, seppur maggiori di 14 anni. Come osserva Colombo (2015, 26), “il workfare può affermarsi solo in una zona grigia tra politiche del lavoro e politiche contro la povertà, tra assistenza e assicurazione.

Uno spazio, permesso in parte dal ritrarsi delle responsabilità pubbliche nella riproduzione sociale, che risponde alla necessità di una forza lavoro precaria e rischia di rilanciare le retoriche di criminalizzazione morale della miseria e della disoccupazione”. Rischio, quest’ultimo, che viene ravvisato anche dai già citati Sacchi et al. (2023, 109), i quali individuano nella riforma una sorta di “volontà punitiva nei confronti dei percettori … [che] tradisce una sorta di nota di fondo … la sfiducia nella capacità degli individui di sfruttare le opportunità di accrescimento e rigenerazione delle competenze offerte da percorsi di inclusione lavorativa, così come la sfiducia nella capacità dell’attore pubblico di offrire simili opportunità”.

Assegno di inclusione: una misura che va rivista

Gli studi accademici condotti finora ci restituiscono un bilancio della misura, seppur parziale vista la sua recente entrata in vigore, estremamente negativo, in quanto essa viene accusata di trattare anche in modo radicalmente diverso tra loro situazioni di povertà simili, e di prevedere delle condizionalità “severe, restrittive e spesso punitive … ispirate alla cristallizzazione di criteri di meritevolezza basati sull’attribuzione di ruoli nella società: avere 60 anni, avere figli molto piccoli, o averne molti, senza tenere in considerazione le diverse condizioni di vita” (Sacchi et al 2023, 113).

In sostanza, la riforma viene tacciata di rifuggire la promozione del diritto alla cura e la conciliazione vita-lavoro a cui dovrebbe contribuire in quanto afferente alle politiche attive del lavoro, oltre ad essere, come già detto, un sostegno ai poveri parziale, visti i requisiti stringenti per accedervi. Alla luce di ciò, risulta evidente che, così come formulata e implementata in questa prima fase, questa misura necessiti di essere fortemente rivista. L’Alleanza contro la povertà (2024), su questo punto, ha ufficialmente sollecitato il governo sulla possibilità di collaborare per migliorare il contributo, di modo da ripristinarne il principio di universalismo selettivo. Ad oggi, però, non sono state ricevute risposte.

Andrea Gruttad’Auria

Riferimenti

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