Il 24 marzo 2018, in qualità di sociologa, ho avuto l’opportunità di visitare i campi di sterminio di Auschwitz I e Auschwitz II (Birkenau). Il progetto “In Treno per la Memoria” nasce dall’iniziativa di CGIL, CSL e UIL ed è rivolto agli studenti delle scuole secondarie di secondo grado. Mi sono state rivolte di frequente le seguenti domande: «Come è stato possibile?», «Come può, l’essere umano, commettere tali errori?», «Perché tanta indifferenza?», tutte più o meno riassumibili nel quesito: da cosa deriva l’agire violento?
La violenza non è innata ma si apprende socialmente
Il modello sociointuizionista (Social Intuitionist Model: SIM) si struttura sul presupposto che le convinzioni morali provengono dai sentimenti e che siano quest’ultimi a restituirci una comprensione intuitiva di ciò che è giusto e di ciò che non lo è. Non importa dunque se stia leggendo una lista di antipasti o se sia coinvolto in una rissa: l’individuo metterà sempre in atto delle valutazioni immediate su ciò che percepisce in base alla dimensione del bene o del male. Gli esseri umani inoltre, beneficiando dei principi della collaborazione e della solidarietà, sono tendenzialmente orientati ad agire nel rispetto delle norme costruite e condivise socialmente. Lonnie Athens, accademico statunitense, individua il modello sequenziale della “violentizzazione” (violentization). Tale neologismo, coniato dall’aggettivo “violento” e dal termine “socializzazione”, indica l’insieme di quei processi tramite i quali un individuo sviluppa percorsi di apprendimento e di adattamento a sistemi culturali e normativi fondati prevalentemente sulla coercizione. Il “percorso formativo” di chi tiene comportamenti violenti consta di ben quattro “stanze”: “brutalizzazione”, “belligeranza”, “prestazioni violente” e “virulenza”.
La nascita dei bruti attraverso l’addestramento militare
Le esperienze cruciali sono quelle in cui il male, facendo la sua comparsa, lascia nei soggetti tracce palpabili di sé. La brutalizzazione, come tutte le tracce durevoli di questo “passaggio”, contiene una serie di esperienze distruttive che si addensano reciprocamente e attorno alle quali può organizzarsi ciò che Athens definisce una “cosmologia violenta”. La brutalizzazione implica che un individuo subisca un trattamento talmente coercitivo da cristallizzarsi nella sfera emotiva ed esperienziale del soggetto. Dirigere un “novizio” verso il conseguimento di una nuova immagine di sé richiede un preciso processo di socializzazione, denominato da Athens “coaching”, che prevede da parte di una figura autoritaria una serie di esperienze che assumono il carattere di pietre miliari, di segni che indicano il superamento di una fase e il passaggio a un livello superiore. Il potere di addestrare alla violenza, in contesti militari e non, incarna il momento di questa fase del processo poiché si appiglia ad astuzie e a tecniche particolari che consistono, innanzitutto, ad attribuire all’allievo un’identità positiva (altercasting). La curvatura per motivare ed indurre l’agire violento inizia invece con l’insegnamento che il proprio ambiente è dominato da persone malvagie e/o indegne e che in situazioni particolarmente ostili l’aggressione fisica è il mezzo più idoneo per prevalere nell’inevitabile scontro. L’“ammaestratore” pretende che si internalizzi il convincimento che vi siano persone che devono essere aggredite e quindi dominate poiché, per natura, occupano una posizione subalterna o incarnano prerogative “disumane”.
L’atto violento e la violenza perpetrata
Chi si presenta all’ingresso della belligeranza (o “sfida”) è costretto a subire pensieri ed emozioni contrastanti scaturiti dalla propria esperienza traumatica. In mezzo a queste macerie desidera ricomporre un quadro generale capace di riorientare i propri rapporti con l’ambiente circostante. È in questa fase che tutti gli insegnamenti appresi durante l’addestramento violento trovano uno spazio di risonanza interiore, poiché è solo ora che si riesce ad ascoltare il precetto che è stato intimato per un lungo periodo di tempo: “In questo mondo, a volte, è necessario usare la violenza”. Tale traccia mnestica si manifesta sotto forma di “rivelazione”. Nella fase di belligeranza, secondo Athens, si ha una “risoluzione violenta mitigata”, in quanto, per la prima volta nella vita, si decide di aggredire fisicamente chi ha ingiustamente provocato. Il mettere in atto l’azione violenta consistente nella fase denominata “prestazioni violente” o “scontri violenti per il dominio”. Per entrare in quest’ultima stanza, la virulenza, il soggetto deve aver ottenuto una rivalsa nei confronti del proprio antagonista. Alla luce dell’impresa violenta commessa, le opinioni sull’attore cambiano drasticamente: le definizioni conferite all’azione da parte degli appartenenti ai gruppi primari (e secondari) influenzano l’opinione che l’individuo ha di sé. La nuova identità proietta una sorta di effetto alone su chiunque faccia parte dei propri gruppi di appartenenza: l’essere “violenti” racchiude l’individuo in un repertorio di immagini ipersemplificate e di stereotipi che traggono la loro forza dal fatto di dover essere reiterati. Inaugurando questa nuova risoluzione si rimodula quindi il proprio atteggiamento da “più o meno difensivo” in “decisamente offensivo”: la determinazione a non tollerare più alcuna provocazione, che sia anche la sola presenza nel proprio ambiente di esseri umani “indegni” di tale considerazione, si va strutturando a quella di essere, a propria volta, un individuo sostanzialmente pericoloso. Il processo di violentizzazione trova così compimento in una tragica circolarità: l’attore, da vittima della brutalizzazione, diventa uno sfrenato aggressore.
Giulia Marra
