Nel 1975 Paul Hockings pubblicò un libro dal titolo Principles of Visual Anthropology con il quale determinò l’apertura formale di un nuovo campo di studi accademico: l’antropologia visuale.
Le origini dell’antropologia visuale
L’antropologia visuale è una disciplina scientifica sviluppatasi negli anni ’30 del Novecento nel momento in cui ci si rese conto che urgeva concepire strumenti in grado di poter registrare emozioni, gesti ed espressioni dei soggetti con cui si entrava in relazione durante le ricerche sul campo. Questa disciplina pian piano ha imboccato un sentiero proprio, determinando nuove teorie, studi e tecniche, innestandosi e contribuendo a un sistema interdisciplinare fluido. Da qui si potrebbe a tal proposito già parlare di innesti qualitativi nella ricerca sociale: un’evoluzione importante, che oggi trova concretezza e applicazione nei mixed methods. Per antropologia visuale non bisogna tuttavia intendere soltanto la riflessione indirizzata a l’uso delle immagini nella ricerca, ma riguarda anche l’analisi degli impieghi delle immagini nei diversi contesti culturali a opera delle popolazioni autoctone.
Studiare (con) le immagini
L’oggetto di studio dell’antropologia visuale può individuarsi in tutto ciò che:
- si esprime visivamente in una cultura;
- è possibile cogliere visivamente;
- è possibile registrare e fissare.
L’originalità di questa disciplina sta tutta nella sua doppia natura. Essa è contemporaneamente antropologia culturale, cioè una riflessione fondata su strumenti di analisi, intellettuali e scientifici, sia pragmatica della comunicazione, grazie all’ausilio di strumenti tecnici quali la macchina da presa e quella fotografica. Essa si pone dunque come lo studio dei modi e delle forme con cui gli uomini vivono in una società, nonché lo studio delle rappresentazioni visive di quei modi secondo un proprio originale punto di vista.
Teoria del visivo
L’obiettivo conoscitivo della disciplina è di giungere dunque a una vera e propria teoria del visivo. Essa è volta ad analizzare e decodificare le forme visibili che le culture variamente assumono quando sono impegnate nel modellare l’ambiente, i luoghi, e i corpi degli attori sociali. Oggi la ricerca antropologica e visuale si sta spostando – e per certi versi chiarendo – su di una prospettiva che contempla la comunicazione come fattore fondamentale da cui far partire riflessioni e indagini. Enfatizzando in questo modo la sua natura di linguaggio in quanto processo comunicativo globale, si evita di perdere di vista la consapevolezza della natura soggettiva di un qualunque prodotto foto/video.
Il ruolo delle persone
La credenza – tutt’ora presente – che il film o la foto possano essere una registrazione non mediata del mondo reale, si fonda sull’idea che sono le macchine e non le persone che producono immagini, e sull’ingenua nozione empiristica secondo la quale il mondo è quale appare essere. Non si deve perciò dimenticare che i dati etnografici, che si tratti di un film, registrazioni sonore o appunti scritti, sono il prodotto di un particolare essere umano e che possono essere suscettibili di modifiche all’atto dell’interpretazione, sia per esse involontarie o meno.
Francesco D’Ambrosio
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Hr specialist, orientatore e giornalista pubblicista laureato in Sociologia con lode. Redattore capo di Sociologicamente.it.
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