Claude Levi-Strauss è tra gli antropologi più famosi e iconici di tutto il Novecento. Di origine belga, nato a Bruxelles ma cresciuto in Francia, è stato uno studioso stimato in ogni ambito accademico, che ha saputo avvicinare anche il grande pubblico alla disciplina antropologica e alle scienze umane. Scomparso alla venerabile età di 101 anni, è il principale teorico del strutturalismo applicato agli studi etnologici e antropologici, una corrente che lascerà, per la sua portata sistematica, un’impronta indelebile su un’intera generazione di intellettuali. Pur avendo fatto ricerca sul campo è ricordato infatti come un grande pensatore in cui convergono psicologia, storia, filosofia e ovviamente antropologia. Per le sue opere e idee, nel corso della sua carriera, gli saranno riconosciuti infiniti premi e onorificenze in tutto il mondo.

Dalla linguistica all’antropologia

Lo strutturalismo nasce però in linguistica, per opera di Ferdinand de Saussure, fondatore della linguistica moderna. L’autore, anch’esso francese, in controcorrente rispetto alla tradizione prevalente considerava la lingua come un prodotto sociale derivante dalla facoltà del linguaggio in cui i diversi segni vengono connessi gli uni agli altri tramite strutture logiche di opposizione e associazione per comunicare con gli altri in modo convenzionale e arbitrario. Questi distingueva tra “langue”, la parte sociale del linguaggio, esterna all’individuo, che da solo non può né crearla né modificarla ed esiste solo in virtù d’una sorta di contratto stretto tra i membri della comunità; e “parole”, ovvero l’esecuzione linguistica individuale.

Le strutture profonde

Trasponendo all’antropologia de Saussure e i suoi concetti, in quanto “fenomeni la cui natura si ricollega a quella della stessa natura del linguaggio”, Levi-Strauss in “Antropologia strutturale” afferma che il compito della disciplina antropologia era quello di ricercare gli “universali strutturali“:  quell’ordine mentale soggiacente e comune a tutte le società da cui poi nascono gli infiniti elementi della variabilità culturale e sociale. Diversamente da altri autori come Radcliffe-Brown, che ricercavano le leggi del funzionamento della società, Levi-Strauss, richiamando la psicoanalisi, si occupava di rintracciare quelle “forme nascoste e inconsce” dietro ai fatti sociali e culturali, le quali “presiedono alla istituzione di quella complessa organizzazione sociale dei propri componenti sorta dall’ineludibile esigenza vitale di imporre quell’indispensabile ordine al fluire indistinto e caotico del reale”. Così come i fonemi assumono un senso solo all’interno di un sistema di regole che li mettono in relazione, questi principi stanno alla base e danno senso a ogni fenomeno sociale. Claude Levi-Strauss fu l’ultimo a tentare questo tipo di impostazione “universalista“ e razionalista. Ovviamente, le popolazioni cosiddette “selvagge” erano, secondo il francese, il terreno migliore per questo tipo di indagine in quanto le strutture in esse erano più facilmente rintracciabili.

Incesto, logica binaria e simmetria

Un primo elemento strutturale, una prima invarianza nota è la proibizione dell’incesto. Riprendendo Durkheim e alcuni concetti del suo maestro Marcel Mauss, nella sua tesi di dottorato “Les structures élémentaires de la parenté” per Levi-Strauss questo divieto, oltre a vietare tale pratica, prescriverebbe, incoraggerebbe di accoppiarsi fuori dal proprio gruppo di discendenza permettendo di dare inizio alle relazioni sociali alla base della società stessa. Lo “scambio delle donne” tra i primi gruppi umani, generando solidarietà e reciprocità, rappresenta infatti il primo passo verso una condizione sociale e culturale più ampia e complessa. L’esistenza di una logica binaria universale è un altro elemento transculturale che l’autore osserva, ovvero quel sistema mentale che ordina, classifica e ci permette di capire il mondo tramite un metodo bipolare di opposizioni e contrasti (caldo-freddo, bianco-nero, male-bene) che ritrova in tutti i miti cosmogonici (le leggende sulla creazione dell’universo) delle diverse società. Infine, la simmetria è l’ultima caratteristica comune costante in ogni cultura, l’ultima “categoria dello spirito umano”.

I bororo

Nel famosissimo “Tristi tropici” (1955) ritroviamo invece la sua esperienza più etnografica, durante il lungo viaggio in America del Sud tra i Nambikwara, i Maya-Caduvei, i Tupi-Kawahib e soprattutto i Bororo. Il testo è inoltre il meno astruso e complesso della letteratura levistraussiana, tipicamente molto densa e articolata. Questa popolazione rappresenta un perfetto esempio dell’ipotesi strutturalista, fornendo un riscontro empirico delle strutture elementari alla base della società. Le case nei villaggi bororo erano infatti predisposte a formare un cerchio in cui i clan esogamici Exerae e Tugarége ne occupavano ciascuno una metà. Ogni membro Bororo in pratica doveva “accopparsi” con l’altra metà del villaggio. In questo caso, pertanto, ritroviamo tutti gli elementi della teoria strutturalista: la reciprocità , la simmetria e il pensiero binario.

Razze e cultura

Claude Levi-Strauss, pur ricevendo successivamente diverse note critiche riguardo le sue tesi, è stato fondamentale nella messa al bando dell’etnocentrismo, dimostrando una volta in più come le culture “altre” siano molto più vicine a noi di quanto pensiamo. Le sue parole in “Razza e storia” (1952) sono ancora oggi di grande attualità:

Una volta abbandonate le teorie sull’inuguaglianza biologica delle razze, ci troviamo ancora di fronte in tutta la sua complessità il problema della molteplicità e diversità delle culture. Limitarsi ad affermare l’uguaglianza naturale di tutti gli uomini non basta, le grandi dichiarazioni dei diritti dell’uomo hanno la forza e la debolezza di enunciare un ideale troppo spesso dimentico del fatto che l’uomo non realizza la propria natura in un’umanità astratta, ma in culture tradizionali. Questa comune umanità si realizza attraverso e non malgrado le differenze culturali. Il progresso è sempre frutto della reciproca fecondazione di tradizioni culturali diverse. Il peggior nemico di un simile modello di dialogo aperto, attivo e generalizzato fra le culture è l’etnocentrismo. L’etnocentrismo è un atteggiamento radicato nella maggior parte degli uomini, che semplicemente rifiuta di ammettere il fatto stesso della diversità culturale, identificando la cultura e l’umanità con le proprie norme e le proprie consuetudini locali. È l’atteggiamento che nell’antichità portava a definire ‘barbaro’ chi non faceva parte della cultura greca o romana, e che ha condotto l’Occidente moderno all’uso di termini come ‘selvaggio’. Questo atteggiamento di pensiero nel cui nome si respingono i ‘selvaggi’ fuori dell’umanità, è proprio l’atteggiamento più caratteristico che contraddistingue quei selvaggi medesimi”.

Valerio Adolini

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