Il postumanesimo filosofico propone un’umanità definita dalle contaminazioni, dalle ibridazioni, dalle alterità. Superare l’umanesimo significherebbe accettare la multi-identità dell’uomo, frutto di un processo creativo e non determinato, che sposta costantemente i propri confini attraverso scambi e relazioni. La multi-identità modifica la concezione classica del corpo, proponendo l’idea di “soglia” da cui si originano tutte le relazioni tra l’interno e l’esterno dello stesso.

Ogni singolo incontro con il biologico e il tecnologico determinerebbe, in quest’ottica, un mutamento e una notevole produzione di nuove identità. In quest’ottica, dunque, la figura del corpo cibernetico viene a costituirsi in maniera problematica, in quanto divenire macchina riguarderebbe la fusione di umano e tecnologico che si concretizza in un nuovo composto trasversale, un nuovo tipo di unità eco-filosofica, non dissimile dalla relazione simbiotica tra animale e habitat planetario (G. Deleuze e F. Guattari , pp. 88-101).

Per comprendere al meglio la possibile risoluzione dei dualismi propugnata dalle teorie afferenti al postumanesimo è parso utile implementare nella riflessione alcuni elementi della cultura artistica asiatica, nello specifico quella Giapponese.

Indice

Arte e filosofia orientale: la contepl-azione

L’arte e la filosofia orientale si basano soprattutto sull’osservare le esperienze che viviamo con uno sguardo aperto, dolce e contemplativo. La contemplazione, per la maggior parte di noi occidentali, non è semplice da capire, poiché essa si lega a concetti filosofici molto lontani da quelli che siamo abituati a studiare tra i banchi di scuola e che prevedono di base una differenziazione netta tra il qui e l’altrove.

L’oggetto principe della contemplazione, il vuoto, è essenziale per l’arte orientale, in particolare per quella giapponese, che differente mente dall’occidentale non vi ha attribuito valenze negative. La tela di un quadro per un pittore occidentale, ad esempio, doveva essere ricoperta di colore, gli elementi distribuiti nello spazio con perizia, rispettando certi canoni; nella pittura dell’estremo oriente, invece, il vuoto corrisponde a un principio generatore, poiché dal vuoto si manifesta potenzialmente ogni cosa.

Spesso il tratto della pennellata si interrompe per lasciare spazio all’immaginazione che suggerisce le forme e non le delinea: l’opera risulta così aperta allo sguardo di colui che la osserva, la vive e la completa. In un certo senso, parlare del vuoto in questi termini significa già concepire e accettare la non essenza materiale.

Trasmutazione creativa

Si può affermare quindi che l’estetica giapponese evita di creare uno spazio che sia la proiezione di un solo punto di vista, o di organizzarlo simmetricamente su un fulcro centrale concepito come il solo elemento focale (A. Berque 1982, pp. 119-124). Attraverso il linguaggio artistico, dunque, si può dare voce a ciò che prima era indicato come indicibile, e lasciare spazio all’espressione di ogni tipologia di idea. Sulla base di ciò, lo stesso Duchamp affermava che

Il processo creativo prende totalmente un altro aspetto quando uno spettatore si trova in presenza del fenomeno della trasmutazione; con il cambiamento della materia inerte in opera d’arte, una vera transustanziazione ha preso luogo e il ruolo importante dello spettatore è di determinare il peso dell’opera sulla bilancia estetica. Insomma, l’artista non è il solo a compiere l’atto di creazione poiché lo spettatore stabilisce il contatto dell’opera con il mondo esterno decifrandone e interpretandone le qualifiche profonde, e in questo modo aggiunge il suo proprio contributo al processo creativo (M. Calvesi 1975, p. 42).

Il corpo come paesaggio cosmico

Queste forme d’arte ricorrenti in oriente hanno subìto molto l’influenza della dottrina Daoista, nonché della visione antidualista del corpo come paesaggio cosmico, paese e universo simbolico (M. Raveri 2014, p. 278). Concepire il corpo come un paesaggio cosmico è un postulato fondamentale che determina i contenuti e le visioni iniziatiche della mediazione daoista. La “via daoista” infatti afferma che la realizzazione della sapienza è nella “non-azione” – mui 無為 (cinese wu wei), cioè un “agire che aderisce alla natura” e non in sua opposizione – un ideale che va a indicare la capacità di immedesimarsi nelle leggi del divenire, di assecondare con attenzione e con consapevolezza, la profonda armonia che li sottintende (ivi, p. 292).

corpo cyborg donna postumanesimo

Tuttavia, questa conoscenza della “via” non diventa vera saggezza se non si concretizza nella pratica. Il confucianesimo, in particolare, interpreta questa sapienza in modo attivo, la vede maturare nel processo di condivisione e di giustizia sociale. Praticando la virtù, l’uomo comprenderebbe la propria natura e la sperimenta nel quotidiano, creando una continua interazione fra ricerca dell’armonia interiore e concordia sociale, fra crescita personale e responsabilità po litica, fra conoscenza di sé e azione nel sociale.

Non agire contro la natura

Contrariamente a quanto la tradizione cristiana ci ha abituati, nel dao non si ha la pretesa di agire “contro” la natura – vista come un ambiente ostile e apodittico – ma si vive in essa e la si contempla come realtà duttile, in costante divenire (V. Bernabei 2012, p. 47).

Di conseguenza in questo approccio non sussiste la classica dicotomia conflittuale di reale e virtuale, ma si tratta di una visione sistemica di un ambiente unico, intelligente, che misura, reagisce e ci osserva (K. Hayles 1999 p. 27), che sia attraversabile in tutta la sua urbana percorribilità. Non a caso l’invito del massimo esponente della dottrina, Laotzu, non è quello di spostarci in una realtà trascendente al di fuori dell’identificazione con l’io, ma è quello di essere in due posti contemporaneamente, cioè muoversi come un io nel mondo senza essere identificati con quest’ultimo, dunque, essere consapevoli del vuoto essenziale che c’è all’interno di questo io (G. Mancuso 2013, p. 111).

Postumanesimo: il corpo-universo

Seguendo questa impostazione il cammino dell’adepto del Dao è un tener uniti gli opposti, essere “onda e oceano, essere vuoto e agire nel mondo in un modo che parte dalla coscienza di questo vuoto e dalla non-identificazione” (M. Raveri 2014, p. 283). Laotzu lo chiama “non azione”, ma questo “non agire” non è un non fare nulla, è un fare che nasce da un punto diverso, un riempimento, una crasi esistenziale (G. Mancuso 2013, p. 133).

Ciò che in definitiva fa vivere la metafora daoista del corpo-universo è l’idea sostanziale del macrocosmo e microcosmo come entità simmetriche: il corpo – il microcosmo – corrisponde in ogni sua caratteristica al mondo esterno. L’uomo non è isolato dalla natura, ma rispecchia in sé stesso il tutto. Questo significa che l’uomo non è investito di nessun potere speciale di dominio nei confronti della natura né costituisce un’alterità posta a misura di confronto con tutte le cose come se ne fosse il fulcro: è semplicemente una parte della struttura armoniosa del cosmo. Come osservava Catherine Despeux,

parlare di macro e microcosmo è giusto, ma bisogna ragionare e utilizzare questi termini esattamente come li intendevano i daoisti, cioè come se non vi fosse né interiorità né esteriorità, come se il corpo e l’universo non fossero che uno. […] La percezione dell’individuo del proprio corpo non resta quella di un mondo interiore delimitato dalla pelle, ma si evolve verso un’identificazione con lo stesso universo. Ancora oggi, i maestri daoisti, raccomandano talvolta di immaginarsi il corpo grande quanto l’universo. La corrispondenza micro e macrocosmo diventa un sostegno della dinamica dell’essere (1991, p. 97).

Le pratiche artistiche come elementi sacri

A tal proposito è interessante notare, a titolo di esempio, come tra il XIV e il XV secolo, presso i monaci dei templi zen di Kyoto e Kamamura, si sviluppò il gozan, un’intensa attività artistica concentrata soprattutto nello studio delle tecniche calligrafiche e nelle composizioni di testi in poesia e prosa. Questi influenzarono profondamente i valori estetici che si formarono in quel periodo, tanto da influenzare tutta l’arte giapponese fino ai giorni nostri. L’arte diventò di fondamentale importanza, perché la metodologia dello spirito zen la interpretò e la rielaborò in maniera singolare.

La pratica, nelle arti come l’ikebana, i giardini, la calligrafia, la cerimonia del tè e le arti marziali, veniva intesa come un’esperienza religiosa di meditazione e illuminazione, un percorso che guidasse la mente verso l’assoluto. Il fulcro dell’esperienza non riguarda esclusivamente il significato della rappresentazione in sé – che sia un ideogramma o una scultura – ma riguarda piuttosto la disciplina dell’apprendistato, la concentrazione fino a dimenticare sé stessi per unirsi al cosmo, il movimento dello strumento, sia esso pennello, scalpello o il corpo stesso.

Il divenire postumano, quindi, passerebbe per un processo di ridefinizione del senso di connessione verso il mondo condiviso e l’ambiente, sia esso urbano, sociale, psichico, ecologico o planetario. Esso per Braidotti,

esprime multiple ecologie dell’appartenenza, mentre innesca la trasforma zione delle coordinate sensoriali e percettive, al fine di riconoscere la natura collettiva e l’apertura verso l’esterno di ciò che ancora chiamiamo soggetto. Tale soggetto è infatti un assemblaggio mobile in uno spazio di vita condivi so che non controlla né possiede, ma che semplicemente occupa, attraversa, sempre in comunità, in gruppo, in rete. Per la teoria postumana il soggetto è un’entità trasversale, pienamente immersa in e immanente a una rete di rela zioni non umane (animali, vegetali, virali) (2014 p. 202).

Cosa connette arte e postumano?

Seguendo questa impostazione, in definitiva, cosa connette l’arte e il postumano? innanzitutto, la cultura contemporanea (e l’arte) si definisce tramite un continuo “spostamento di soglia”, cioè atti critici di riflessione e consapevolezza che facilitano questi processi ibridativi con le eventuali alterità. Tuttavia, se il corpo in quanto entità embodied che elimina i dualismi reale/virtuale, immanenza/trascendenza confondendoli, si situa in un ambiens sempre più digitale percepito quasi come un vero e proprio cosmos, l’arte, intesa come processo ragionativo, diventa essa stessa ambiens per il postumano.

Per dirla meglio, l’arte postumana, abbandonando definizioni esclusive e riduttive – arte come linguaggio, come comunicazione, come strumento – si qualifica come un insieme di occasioni attraverso le quali gli individui percepiscono il complesso di condizioni sociali, culturali e morali nel quale si trovano, partecipano e ragionano.

Un’arte così intesa consentirebbe quindi il passaggio da un’idea egocentrica dell’umano definirsi, a un’idea ecologica di postumano definirsi, cioè un’idea che prevede una connessione/sovrapposizione non conflittuale, armonica e virtuosa con l’ambiente, in tutte le sue accezioni. In definitiva, essere postumani non significa essere indifferenti agli umani o essere disumanizzati. Al contrario, ciò implica piuttosto un nuovo modo di combinare i valori etici con il benessere di una comunità allargata, che includa le interconnessioni territoriali e ambientali di ciascuno.

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Bibliografia

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