Spesso quando si comincia a studiare la sociologia, ci si imbatte nei paradigmi. A volte è un argomento trascurato, che una volta trattato viene accantonato e messo nel dimenticatoio. Nel corso del proprio percorso accademico è importante ogni tanto rinfrescarsi la memoria e ripassare le varie scuole di pensiero, che ancora oggi sono di grande aiuto per avere maggiore consapevolezza.
Cos’è un paradigma?
Il termine paradigma deriva dal greco e può essere tradotto in «mostrare, presentare, confrontare». Platone usa il termine paradigma come sinonimo di «modello», mentre Aristotele di «esempio». È a partire dagli anni Sessanta del Novecento che il termine viene assimilato dalle scienze sociali e viene ampliato. Thomas Kuhn in «La struttura delle rivoluzioni scientifica» suggerisce di studiare il progresso scientifico in una nuova ottica, non più cumulativa, ma rivoluzionaria (Kuhn 1962). Secondo Kuhn si alternano «tempi normali», durante i quali effettivamente le conoscenze scientifiche si accumulano, a «momenti rivoluzionari», durante i quali, in seguito a una scoperta rivoluzionaria, tutta la conoscenza pregressa viene messa da parte e si ricomincia da capo. Le rivoluzioni scientifiche non solo determinano la sostituzione di tutte le teorie presenti, ma anche una trasformazione della struttura concettuale con cui si studia una determinata disciplina. Per Kuhn quindi un paradigma è la cornice concettuale entro cui una comunità scientifica si muove, che orienta sia la scelta degli argomenti da studiare sia lo stile e le tecniche da adottare per lo studio. Più sinteticamente, si può affermare che un paradigma è un insieme di principi di base.
Kuhn e la discussione tra le scienze
Le riflessioni di Kuhn si inseriscono nella secolare e ampia discussione sul confronto tra le scienze naturali e le scienze sociali. Queste ultime, nate successivamente alle prime, sono sempre state messe in discussione, accusate di non avere rigore metodologico e un riscontro empirico sostanziale. Kuhn, infatti, trasla il concetto di paradigma dall’ambito delle scienze naturali, definite «hard», a quello delle scienze sociali, definite «soft». Kuhn nota come nell’ambito della astronomia più volte un paradigma, nonostante fosse stato dominante a lungo, in seguito a una nuova teoria sia stato abbandonato dalla comunità scientifica per adottarne uno nuovo. Nelle scienze sociali, però, si assiste a una situazione di convivenza di paradigmi. Così nella sociologia il concetto di paradigma, nonostante mantenga tutte le caratteristiche delle scienze naturali, differisce per una caratteristica fondamentale: la presenza di un paradigma non esclude la presenza di un altro paradigma concorrente (Corbetta 2015).
Nonostante i paradigmi differiscano molto tra di essi, condividono tutti la stessa struttura logica di fondo. Sono tre le questioni che definiscono i principali aspetti di un paradigma. La prima è la questione ontologica. L’ontologia è lo studio dell’essere in quanto tale, e di fatto il suo esercizio si concentra sull’essenza intrinseca dell’oggetto di studio. Applicata alle scienze sociali, la questione ontologica si declina nel domandarsi se la realtà sociale esiste al di fuori dell’esperienza umana o se è una invenzione umana insita solamente nella sua mente. La risposta che un ricercatore si dà è molto importante, perché inevitabilmente condizionerà la seconda e la terza questione su cui si basa un paradigma. Dopo essersi domandati se la realtà sociale esiste, occorre domandarsi se questa è effettivamente conoscibile, oppure se il rapporto tra studioso e realtà studiata non lo permette. La riflessione sulla conoscenza scientifica caratterizza la questione epistemologica. Nuovamente la risposta data a questo interrogativo orienterà i passi da seguire. Risolti i primi due interrogativi, ne sussiste ancora un terzo, ovvero come effettivamente la realtà sociale può essere studiata. Si tratta della questione metodologica e riguarda la strumentazione tecnica adottata durante la ricerca.
I paradigmi della sociologia
Il primo paradigma a imporsi nelle scienze sociali è stato quello positivista. I primi studiosi inerenti a questa scuola di pensiero, come Comte o Spencer, ritenevano necessario adottare il modello delle scienze naturali anche in quelle sociali, ritenute equivalenti e comparabili. Comunemente si identifica in Durkheim il primo vero sociologo positivista, in quanto egli ha teorizzato i fatti sociali, ovvero modi d’agire, di pensare, di sentire che presentano la proprietà di esistere al di fuori delle conoscenze individuali, e li ha studiati come concetti a sé stanti. Alla base del paradigma positivista viene in genere posto il «realismo ingenuo». Gli studiosi che si riconoscono positivisti sono convinti che la realtà sociale esiste, e che essendo esterna all’uomo è anche conoscibile. Lo studioso e l’oggetto da studiare sono considerati due entità separate e indipendenti. Lo studioso può studiare l’oggetto di studio in modo oggettivo, senza influenzarlo o esserne influenzato. L’obiettivo della ricerca è formulare leggi matematiche tramite il metodo induttivo, ovvero partire dalle osservazioni raccolte su un caso e generalizzarle a tutti gli altri. Gli scienziati sociali positivisti conducono molti esperimenti, e manipolano le variabili per registrare eventuali effetti.
Il paradigma post-positivista
Il tentativo di risolvere alcune delle debolezze del paradigma positivista sfocia in un nuovo paradigma, il post-positivismo. L’origine di questa nuova scuola di pensiero avviene negli anni ’20 del Novecento dall’incontro tra gli studiosi del «Circolo di Vienna», esponenti del positivismo logico, e di quelli del pragmatismo americano. Successivamente, grande impatto hanno l’elaborazione della teoria della relatività e del principio di indeterminatezza, che fanno vacillare l’assolutezza delle leggi deterministiche anche nelle scienze naturali. Essendo una evoluzione del positivismo, il post-positivismo condivide gran parte del suo impianto, ma ne apporta alcune modifiche fondamentali. Al realismo ingenuo viene sostituito il realismo critico. I ricercatori post-positivisti sono convinti, come quelli positivisti, che la realtà sociale esiste, ma a differenza di questi ultimi, che non è perfettamente conoscibile. Il motivo di questa imperfezione è da attribuirsi ai limiti cognitivi umani. Gli studiosi post-positivisti sono consapevoli degli elementi di disturbo che possono intercorrere tra lo studioso e l’oggetto studiato. Cercano ancora di formulare leggi, non più deterministiche ma probabilistiche e provvisorie. Al metodo induttivo si sostituisce quello deduttivo, ovvero dalle osservazioni su un ampio numero di casi si giunge a fare ipotesi sul caso singolo. Il principio di validazione degli studiosi post-positivisti è quello della falsificazione: ogni teoria è vera finché non viene falsificata. Per quanto riguarda le tecniche adottate, l’esperimento e la manipolazione rimangono ampiamente usate, ma sono anche accettati strumenti qualitativi per diminuire i limiti della sola ricerca quantitativa.
Il paradigma costruttivista
Un paradigma che invece si distanzia completamente dalla scuola di pensiero positivista è quello costruttivista (Guba, Lincoln 1994). Nasce a fine Ottocento come sociologia comprendente, riceve una reinterpretazione negli anni ’60 come interazionismo simbolico. La prima critica al positivismo nelle scienze sociali arriva da Dilthey, il quale sostiene che le due scienze non siano studiabili con gli stessi strumenti in quanto la natura può essere spiegata, mentre la psiche può essere solo intesa. Weber condivide questa prospettiva e introduce il concetto di avalutatività per scindere la conoscenza dalla valutazione. I valori rimangono importanti, ma per orientare la scelta dei temi da affrontare. La generalizzazione avviene attraverso l’immedesimazione e la comprensione delle motivazioni dietro un’azione. Per Weber ogni fenomeno sociale è il prodotto di una azione individuale dotata di senso. Per gli studiosi costruttivisti la realtà sociale è una costruzione degli individui, ed è conoscibile attraverso l’interpretazione dei significati che le vengono assegnati. Non esiste un’unica realtà condivisa, essa varia tra le persone e le varie culture. La separazione tra studioso e oggetto di studio viene meno, in quanto non possibile. Questo limite viene superato con la ricerca del significato dietro le azioni. Vengono predilette le tecniche qualitative tramite l’interazione empatica.
Il paradigma post-modernista
Un paradigma che condivide diversi aspetti con quello costruttivista, ma che differisce in alcuni punti cruciali, è quello post-modernista. Essendo quello più recente, sorto negli anni ’90, è anche quello che ancora non ha una struttura consolidata. Nasce come evoluzione della teoria critica, avanzata da Marx. In generale propone il rifiuto delle teorie generali e della razionalità. Al tempo stesso promuove l’esaltazione delle differenze dell’altro. Al realismo del positivismo e al relativismo del costruttivismo sostituisce il realismo storico. Secondo gli studiosi post-modernisti, la realtà sociale esiste, ma è plasmata dalle classi sociali dominanti. Come visto in precedenza tra i costruttivisti, anche tra gli studiosi post-modernisti è presente l’idea che studioso e oggetto di studio non siano scindibili, e che l’oggettività non sia raggiungibile. Le due scuole di pensiero si differenziano però nei metodi: l’obiettivo dello studioso post-modernista è far luce sulle ingiustizie sociali, e per fare questo adotta un approccio dialettico e dialogico.
Conclusione
I paradigmi sono fondamentali per la ricerca scientifica, illuminano la strada da seguire e forniscono una conoscenza di base da cui partire. Le risposte che ci si dà alla questione ontologica, epistemologica e metodologica delineano il tipo di ricerca che si vuole effettuare.
Paolo Grosso
Riferimenti Bibliografici
- Corbetta P. (2015), La ricerca sociale: metodologia e tecniche. I I paradigmi di riferimento, Il Mulino, Bologna.
- Guba E.G., Lincoln Y.S. (1994), Competing paradigms in qualitative research. In N.K. Denzin, Y.S. Lincoln (Eds.), Handbook of qualitative research, Sage, Thousand Oaks (CA), pp. 105-117.
- Kuhn T.S. (1962), The structure of scientific revolutions, University of Chicago Press, Chicago.