Cari amici di Sociologicamente, lettori, colleghi sociologi, questo è purtroppo l’ultimo mio contributo a questa bella testata. La ragione è l’eccessiva mole di impegni cui sono oggetto in questo periodo. Lavoro, certo, ma anche una mia scelta di dedicarmi a tempo (quasi) pieno all’attivismo politico. Così, fra rapporti di ricerca, blog e vlog, discussioni con committenti non proprio proattivi, riflessioni sul metodo e via discorrendo, sto facendo troppo (e quindi male?) rispetto alle energie e al tempo. Mi dispiace molto perché Sociologicamente è una bellissima impresa che continuerò a sentire “mia”, se mi perdonate la confidenza, anche se continuerò a leggerla ma non ad esserne contributore. Ma non vi lascio solo con un saluto. O meglio: il saluto viene ora argomentato metodologicamente (o meglio, per i più sofisticati: epistemologicamente ma – e qui esagero – oserei dire ontologicamente…).
Chi ha letto i miei precedenti contributi avrà colto lo spirito complessivo, la cornice (questa sì) epistemologica che possiamo così sintetizzare:
+ tutto è linguaggio (ordinario);
+ i dati – intesi come numeri – e quindi tutta la retorica sugli indicatori, sono per la maggior parte oggetto di clamorosi equivoci che tendono a sopravvalutarne il significato e l’importanza;
+ la ricerca sociale include tutte le incertezze, le vaghezze del linguaggio ordinario, e in più tutti i difetti di un “metodo” che – avendo origini positivistiche – si pretende oggettivo (nessuno osa dirlo più ma è il retropensiero) e invece è sostanzialmente casuale; pensate a tutte, nessuna esclusa, le tecniche qualitative; e se siete amanti di quelle (cosiddette) quantitative le incertezze e la vaghezza si spostano (neppure tanto) di luogo, ma il risultato resta invariato…
Se procedeste per questa strada, vi avverto, vi trovereste impigliati in contraddizioni senza uscita, in labirinti inestricabili che al confronto il circolo ermeneutico sembra roba da scuola d’infanzia! Perché ovviamente proseguendo quella strada si arriva a una sorta di solipsismo metodologico dove si riesce solo a vedere, a sentire, a esperire senza potere misurare, certificare, determinare, il che sembrerebbe rendere il lavoro sociologico inutile, anzi: impossibile.
Sono certo che i più metodologicamente organizzati dei lettori stanno friggendo sulla sedia pensando alle biblioteche di meravigliose ricerche sociologiche, da Le Suicide in poi. E avrebbero qualche ragione: ci sono effettivamente tonnellate di ricerche che dicono che ci sono contraddizioni fra generazioni, che le femmine sono economicamente subordinate ai maschi, che la società si sta secolarizzando e che il sentimento europeista si va affievolendo… Mirabili scoperte! La sociologia, spero sarete d’accordo, non scopre fenomeni sociali ma li descrive, semmai in forma brillante, semmai con etichette evocative (‘anomia sociale’, ‘società liquida’, …), ma non ha la possibilità di misurarli, vivaddio le persone non sono molecole e i sociologi non si occupano di costanti!
La sociologia verso la quale sto andando, e verso la quale vi ho accompagnato con venti puntate di questa rubrica, è una sociologia che si fonda sul metodo, ma è un metodo che si ritrova impossibilitato a far altro che sperimentare in situazione, una sociologia pragmatica (nel senso di una pragmatica del linguaggio), una sociologia comprensiva perché partecipata, e quindi valida sempre e solo qui e ora.
Cosa c’entra questo pistolotto col mio impegno di attivista? Moltissimo. Tutto. Il sociologo è un intellettuale critico. Il suo ruolo non è misurare qualcosa ma testimoniarlo. Il sociologo – questo mestiere inutile e meraviglioso – è per eccellenza un osservatore del suo tempo e, in quanto intellettuale, non può che desiderare il cambiamento delle condizioni sociali – che lui sa leggere perché ne ha gli strumenti – che generano dolore, disuguaglianza, inefficacia, anomia, solitudine…
Finché il lavoro metodologico avrà il filtro delle matrici di dati, il sociologo vedrà numeri (fallaci) e non persone (vere, vive…); finché sarà basato su pletore di sciocchissimi focus group sarà eccessiva la preoccupazione del metodo (reclutare i giusti partecipanti, condurre la riunione secondo le regole) e non si vedranno le relazioni. E così via.
Dopo 45 anni di metodo, sono arrivato alla conclusione che conoscere veramente bene il metodo della ricerca sociale vuole dire, alla fine (badate! solo “alla fine”) liberarsene; scrutare il mondo e testimoniarlo criticamente; immergersene; volerlo cambiare. O, perlomeno, questo è successo a me, e questa epifania mi ha portato a diventare da diversi mesi, in maniera preponderante, un attivista.
Cercatemi in giro…
Un caro augurio a tutti voi.
Claudio Bezzi