Lungi dall’essere una mera delimitazione geografica, i confini sono le fondamenta della società stessa: delimitano gli spazi entro i quali possono avvenire determinati flussi di interazioni, scambi e attività e sono permeati di una natura così simbolica da definire e da trasformare la realtà sociale essi stessi. Un loro cambiamento si riverbera sulla realtà con delle ricadute sociali profondissime e traumatiche, sicché le società tendono ad evitare di incorrere frequentemente in cambi di confine. Viceversa, nelle società più instabili e precarie, i cambi di frontiera sono ineludibili e si susseguono incessantemente, spesso perché è lo stesso assetto confinario ad acuire le tensioni, laddove dovrebbe al contrario preservare l’equilibrio sociale esistente. Proprio la mobilità dei confini è particolarmente incandescente nell’Europa orientale.

La Grande Guerra: la fine di un equilibrio secolare

Se la Grande Guerra non causò cambi di frontiera considerevoli nell’Europa occidentale, che del resto conobbe secoli fa l’affermazione di solidi Stati nazionali con uno spazio geopolitico affermato e stabile nel tempo, il puzzle dell’Europa orientale ne uscì frammentato. Si costituì innanzitutto la Polonia, la cui popolazione era dispersa tra tre potenze, ossia tra la Germania, l’impero russo e quello austro-ungarico. Dalle ceneri di quest’ultimo si formarono inoltre la Cecoslovacchia, l’Ungheria e parte della Jugoslavia, mentre vasti territori andarono alla Romania. Diversa la situazione dell’impero russo, che, travolto dalla rivoluzione d’ottobre, perse la guerra e si trovò costretto a firmare con la Germania il trattato di Brest-Litovsk, che comportava la perdita di territori immensi e la nascita di nuove nazioni: la Finlandia, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania.

La Seconda Guerra Mondiale: l’egemonia del socialismo sovietico

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Russia sovietica espanse la propria sconfinata massa terrestre inglobando nuovamente l’Estonia, la Lettonia e la Lituania, ma anche tutte le regioni orientali della Polonia, la quale era stata spartita tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica col patto Molotov-Ribbentrop, meglio conosciuto come il trattato di non aggressione tra Stalin e Hitler. Avvenne così una vera e propria traslazione occidentale della Polonia, che invece acquisì le regioni orientali della Germania. Per quasi un cinquantennio, l’URSS assopì le rivalità esistenti tra le nazioni orientali dell’Europa, le quali aderirono al Patto di Varsavia e divennero di fatto degli Stati satelliti completamente diretti da Mosca, che estese la famigerata cortina di ferro inglobante tutti i regimi comunisti che si erano instaurati senza soluzione di continuità in tutto l’Oriente del Vecchio Continente.

La disgregazione del comunismo

Divorato da una crisi lenta ma inesorabile, la fine del comunismo comportò una rivoluzione geopolitica non meno imponente di quella innescata dalla Prima Guerra Mondiale. Dalla derelitta Unione Sovietica emersero ancora l’Estonia, la Lettonia e la Lituania (le tre repubbliche baltiche), ma anche la Bielorussia, l’Ucraina e la Moldova, mentre la Cecoslovacchia si scisse nella Repubblica Ceca e nella Slovacchia. Dall’implosione e dalla guerra civile della Jugoslavia, che ne sancirono la dissoluzione, sorsero la Slovenia, la Bosnia-Erzegovina, la Serbia e Montenegro e la Macedonia. L’Europa orientale subì duramente i contraccolpi del crollo del socialismo reale, pagando a un prezzo altissimo la conversione al capitalismo e divenendo un’area economicamente più depressa di quanto già non lo fosse sul finire del comunismo, tanto che qualcuno paragonò quel periodo di enormi cambiamenti alla Chicago degli anni Venti, con la differenza tuttavia che la metropoli americana stava al contrario vivendo un’espansione economica a dir poco strepitosa in quegli anni.

Il duemila: l’era post-sovietica

Oggi l’Europa orientale sembra apparentemente stabilizzata, postasi sotto l’ombrello dell’Unione Europea e della NATO. Nondimeno, al di fuori del blocco occidentale prosegue ineluttabilmente quella che ormai pare una costante storica: la ridefinizione perpetua dei confini non ha mai cessato di forgiare nuovi equilibri sociali e geopolitici. Molti sono del resto i separatismi, spesso sobillati dalle mafie locali, che approfittano della multietnicità di molti Paesi e della presenza di cospicue minoranze per mascherare i loro progetti perorando cause politiche, etniche e culturali. Nel 2006 avvenne la secessione del Montenegro dalla Serbia attraverso un referendum dove i sì vinsero col 55,5%, mentre nella polveriera dei Balcani riaffiorano sovente come fiumi carsici tensioni etniche che toccano pressoché tutti gli Stati, dal Kosovo alla Bosnia, dalla Serbia al Kosovo. All’estrema periferia dell’Europa, la Russia ha rinnovato le proprie mire espansionistiche, suggellate dall’annessione della Crimea e dalla guerra del Donbass a partire dal 2014, aprendo così in Ucraina un nuovo fronte dopo le guerre scoppiate nel Caucaso. I confini dell’Europa orientale non sono dunque meno mobili rispetto al secolo scorso, ma del resto la stessa delimitazione dell’Europa orientale resta alquanto problematica: fin dove arrivano le sue frontiere? Nell’Europa si deve includere anche la Russia? E se sì, fino al Caucaso oppure ben al di là? La Turchia è anch’essa un Paese europeo? E le nazioni caucasiche, ossia la Georgia, l’Armenia e l’Azerbaigian?

Stefano Ghilardi

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