Sulla base dell’opera pionieristica di Thorstein Veblen risalente al tardo XIX secolo, la sociologia tradizionale ha maturato una concezione simbolica dei beni di consumo, considerandoli oggetti acquisiti dagli individui per comunicare determinati significati, per esempio lo stile di vita condotto o il prestigio sociale desiderato. Tuttavia, nella sua opera “Per un’antropologia delle cose” edita nel 2010, il sociologo britannico Daniel Miller sostiene che l’analisi della miriade di forme mediante le quali i beni di consumo influiscono sull’identità personale, il Sé e le interazioni con gli altri, è generalmente stata accompagnata da un giudizio negativo. Miller parte da un punto di vista radicalmente diverso e mira a gettare luce sui vari modi in cui i manufatti materiali contribuiscono a fare di noi ciò che siamo e fungono da mediatori nei nostri rapporti e nelle nostre interazioni con gli altri.

Ripensare la casa

Miller prende come esempio la propria casa familiare. Lo stile architettonico e la struttura fisica, per esempio, alimentano e modellano la sua personalità in relazione alla proprietà ma influenzano anche le interazioni con e tra i membri della famiglia. L’immobile conserva molte delle caratteristiche originali, tra le quali la scala in rovere, i camini e le cornici delle finestre, elementi fisici ed estetici che contestualizzano la sua esperienza della casa e il suo rapporto con essa. Per esempio, la sua predilezione per i mobili e il design del marchio svedese IKEA crea una tensione all’interno della sua persona: a causa della sua preferenza per l’arredamento moderno, freddo e lineare, tipico dell’azienda, è come se svilisse e tradisse la casa, che si meriterebbe un proprietario con un gusto migliore. Per risolvere questa tensione, Miller descrive come le continue discussioni tra i membri della famiglia abbiano infine dato forma a un compromesso per quanto riguarda l’arredamento e la decorazione degli ambienti. Miller sostiene che lui stesso e la sua famiglia immaginano e si relazionano alla casa come se fosse un membro della famiglia, con un’identità ed esigenze uniche. In altre parole, la materialità della casa non esercita necessariamente un’azione oppressiva, alienante o tendente a dividere, ma al contrario influenza in maniera positiva i rapporti degli abitanti con l’ambiente, facilitando inoltre la loro interazione e aumentando la solidarietà reciproca.

Una prospettiva alternativa

A partire dal 2007, Sophie Woodward, in collaborazione con Miller e altri studiosi, ha cominciato a studiare il tessuto jeans come un fenomeno consumistico. Nonostante siano venduti ovunque, i capi d’abbigliamento in jeans sono spesso ritenuti oggetti molto personali, con i quali il possessore intrattiene un rapporto intimo: si pensi al giubbetto in jeans e ai pantaloni jeans preferiti. Attingendo agli studi etnografici del tessuto jeans come un articolo di tendenze in tutto il mondo, Woodward ha riscontrato che il suo fascino è indissolubilmente legato ai costumi culturali e alle strutture di significato specifiche di una determinata area. L’opera di Miller mira ad affiancare una prospettiva alternativa all’analisi del consumismo formulata dagli esponenti della Scuola di Francoforte, come Marcuse e Adorno, che interpretavano la cultura del consumo di massa come sintomatica di una perdita di profondità nel mondo. In un’epoca nella quale le crisi economiche e ambientali globali hanno messo in dubbio la sostenibilità di una cultura materialistica del consumo, gli studi di Miller sono considerati da molti come una risposta provocatoria alle critiche che denigrano la cultura materiale della società. Le idee di Miller stanno permeando l’analisi sociologica e convergono nel crescente interesse per l’esame degli oggetti materiali “la materialità delle forme culturali”.

Gianni Broggi

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