Non è mai esistita una definizione di Nerd che mettesse tutti d’accordo. È l’oggetto culturale a fare il nerd o il modo in cui quest’ultimo tratta quell’oggetto a determinare lo status di nerditudine?

Come definirsi?

Il primo passo da fare per inoltrarsi in questo percorso è definire che cosa si intende per nerd. La figura del nerd è poliedrica, complicata a tal punto da chiedersi se esiste davvero una forma in grado di definirla. È forse tra le categorie sociali più difficili da determinare in maniera certa poiché i potenziali adepti, nonché coloro che si percepiscono come tali, possono rientrarvici sia per ragioni storiche (se si è nati tra gli anni Sessanta e Settanta, quindi nel momento in cui nasceva come categoria sociale) sia per i propri interessi o hobby (guardando cartoni animati, giocando ai giochi di ruolo, eccetera), oltre che per il modo con cui ci si rapporta con gli altri (goffaggine nelle conversazioni anche più elementari).

Non esiste un sistema regolamentato che possa chiarificare e determinare chi possa essere o non essere annoverabile in questo gruppo. La stessa comunità nerd non ha confini ben definiti e fa fatica a concepirsi come un movimento unitario. Gli stessi appartenenti, come ogni gruppo sociale definito in quanto tale, non si rispecchiano totalmente in ciò che Benjamin Nugent definisce gli elementi cardine della nerdità:

  1. passioni per attività che escludono coinvolgimento fisico ed emotivo,
  2. predilezione per le forme di comunicazione logiche e razionali,
  3. eccessivo amore per le tecnologie utilizzate oltre che per lavoro anche per divertimento (cfr. Nugent, 2008).

Il rischio di stereotipare

Quello del nerd sembrerebbe essere ancora uno status attribuibile solo dall’esterno, da coloro che se ne distanziano maggiormente e sintetizzano, ai limiti della stereotipizzazione, certe caratteristiche normalmente considerate non desiderabili. (cfr. Gandolfi, 2014). Per trovare una comune radice che possa quantomeno abbozzare la figura del nerd bisogna guardare al suo interesse per i mondi, i personaggi e le storie immaginarie.

Il nerd infatti investe tempo, denaro e attenzione in tali narrazioni ai limiti dell’impossibile poiché queste ultime alimenterebbero non tanto l’immersione in una realtà mimetica, alternativa, ma la ricerca di percorsi narrativi di senso che possano stimolarne la fantasia, l’amore. Non deve sorprendere quindi che tra appassionati del genere, o meglio, di questo crogiuolo di generi, ci si ritrovi ben presto a parlare tanto di Jules Verne e Game of Thrones, quanto di Mario Kart e del Millennium Falcon edizione limitata della Lego.

Giochi di ruolo: tra realtà e fantasia
Giochi di ruolo: tra realtà e fantasia

In principio era l’informatica

Gli home computer hanno iniziato a diffondersi nelle case delle classi medio-borghesi negli anni Ottanta. E’ proprio con essi che si sancì l’avvento della cultura nerd in quanto tale. I computer portavano con sé un nuovo linguaggio, nel senso letterale e metaforico del termine. La programmazione, i comandi che era necessario impartire alla macchina per farla funzionare portavano con sé un senso di libertà mai provato. La possibilità di programmare un oggetto tecnologico infatti è conditio sine qua non per la determinazione delle prime forme di nerd, cioè il programmatore-esploratore curioso che ha bisogno di smontare e riconfigurare la macchina di turno per capirla, personalizzarla ed elevarla all’ennesima potenza.

Questo nuovo linguaggio rappresentava di per sé una modalità d’ingresso per un nuovo mondo tecnologico, portando alla nascita delle prime comunità online, che prima di allora sopravvivevano nello scambio di informazioni grazie all’ausilio di riviste cartacee e convention. Il passo successivo alla programmazione furono i videogiochi, vere entità calamitiche dell’industria culturale. Essi si presentarono come il modo più fascinoso di socializzare con l’informatica (cfr. Turkle, 2005) nonché una tipologia di intrattenimento del tutto nuova, una forma di comunicazione e arte contemporanea di cui probabilmente non siamo ancora in grado di cogliere le reali potenzialità.

Il modo in cui la cultura nerd è passata da essere per pochi ed esclusiva a mainstream

L’espansione di questo mondo e di tutti i mondi immaginari di questa cultura ha visto un depauperamento dei suoi contenuti: l’essere nerd diventa un mostrarsi nerd principalmente attraverso nozionismo (l’accumulo di nozioni, facts e trivia) e “nostalgismo” (la rievocazione acritica dei miti del passato, considerati insuperabili non per la loro reale qualità ma in quanto testimonianza di un’epoca che si ritiene migliore).
Quello che appare come un feticismo ai limiti dello stucchevole è invece l’approccio cauto di chi vuole tenere una certa distanza tra sé e l’opera, conservandola ed elevarla a feticcio apodittico.

Il nostalgico si presenta a un occhio critico come la versione distorta del nerd, e vive infatti un rapporto morboso e insalubre con l’oggetto delle sue passioni, perché non si rapporta con l’opera in sé ma, in maniera egoistica, contano decisamente più i sentimenti che quell’opera ha suscitato in lui la prima volta con cui ci ha avuto a che fare. Ed è proprio a questo tipo di nostalgia che si è rivolta l’industria culturale dell’intrattenimento: un intero settore ha basato la sua strategia marketing su questo target effimero, alimentandone la sua definizione “mostruosa”. Così facendo tuttavia si è assistito allo stiracchiamento e alla banalizzazione dell’etichetta di nerd fino a comprendere un po’ tutto, al punto tale che oggi è quasi impossibile separare cultura nerd da cultura pop.

Per approfondire

Bibliografia

  • Enrico Gandolfi, Generazione nerd. Gioco, tecnologia e immaginario di una subcultura mainstream, Mimesis, Milano, 2014.
  • Jacopo Nacci, Alessandro Lolli, Gregorio Magini, Irene Rubino, Fabrizio Venerandi, Guida all’immaginario nerd, Odoya, Bologna, 2019.
  • Benjamin Nugent, American Nerd. The story of my people, Scribner, New York, 2008.
  • Sherry Turckle, La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di internet, Apogeo, Milano, 2005.
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