La crisi economica esplosa nel 2008 non ha avuto solamente delle devastanti ricadute materiali: ha scardinato un intero sistema di conoscenze, mettendo a repentaglio la credibilità stessa delle scienze umane. L’economia, la sociologia e la politica devono fare i conti con un discredito inaudito e sono costrette a setacciare in lungo e in largo il proprio universo scientifico alla ricerca non di soluzioni capestro, bensì di strategie nuove che possano effettivamente avere un impatto positivo e tangibile sulla vita delle persone, proprio come la Crisi del 1929 portò all’elaborazione di un inedito modello di sviluppo. Per farlo, le scienze umane devono andare addietro nel tempo, ripercorrendo la parabola dello sviluppo dal secondo dopoguerra ad oggi.
Una concezione occidentale
L’idea di sviluppo è etnocentrica e in particolare occidentale. Se nell’Ottocento apparve sotto una veste pseudoscientifica e imbevuta di positivismo e darwinismo, nel Novecento divenne quasi un’ideologia, ma emerse pur sempre come una concezione in antitesi a ciò che non era Occidente: forti di un’industrializzazione ormai secolare, all’avanguardia nelle scienze e politicamente maturi, gli occidentali ritenevano di essere investiti in modo tutt’altro che disinteressato del cosiddetto “fardello dell’uomo bianco”. La decolonizzazione e la Guerra Fredda non portarono a niente se non ad un’ulteriore ingerenza negli affari interni dei Paesi arretrati, tuttavia da parte non più dell’Europa, ma degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, con una molteplicità di approcci che a seconda del contesto imponevano il modello socio-economico ora degli uni e ora dell’altra, in una vera e propria contesa globale tra capitalismo e socialismo.
L’ideologia dominante
Il modello di sviluppo americano, avvalorato da istituzioni internazionali quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, è senz’altro quello che ha plasmato di più il mondo contemporaneo. I suoi cardini sono la democrazia e il libero commercio e lo scopo ultimo è quello di integrare appieno i Paesi sottosviluppati nel fluido e inafferrabile circuito della globalizzazione. I critici di un tale modello hanno evidenziato tuttavia varie controversie: il Terzo Mondo non agirebbe come un membro alla pari all’interno del commercio globale, ma sarebbe al contrario asservito a grandi concentrazioni economiche che vi allocherebbero i lavori meno qualificati, sfruttando a livelli straordinari sia i lavoratori sia le risorse naturali, mentre le attività più innovatrici e tecnologiche resterebbero saldamente ancorate al mondo occidentale. In secondo luogo, numerosi tentativi di trapianto della democrazia in certe aree sottosviluppate si sarebbero rivelati degli autentici fiaschi, deteriorando situazioni instabili già attanagliate dalla miseria e dai conflitti.
Le ideologie del dissenso
Diametralmente opposto all’ideologia dominante dell’Occidente si dipanava tutto un crogiolo di teorie alternative, spesso marxiste e afferenti all’Unione Sovietica. Il rifiuto dell’economia di mercato e la più totale chiusura alla globalizzazione, concepite come gli strumenti per antonomasia dell’egemonia occidentale, ne costituivano le rivendicazioni primarie. Sovente rigettate dalla cultura ufficiale, alle ideologie del dissenso è stato imputato un intellettualismo autoreferenziale e astruso, nonché di avanzare delle soluzioni variopinte e utopistiche, non mancando oltretutto chi riteneva che le loro correnti più estremiste sobillassero rivoluzioni e guerriglie in giro per il mondo, anche grazie ai lauti finanziamenti elargiti dai sovietici. L’esito cruento e orripilante di certi “esperimenti socialisti”, come la rivoluzione culturale cinese e il genocidio cambogiano, offuscarono via via la fascinazione che quell’intricato agglomerato di teorie aveva avuto sull’immaginario collettivo di certe fasce sociali e sugli intellettuali dissenzienti meno ortodossi.
Il duemila
Il collasso finale del comunismo all’inizio degli anni Novanta, del quale già nel 1986 il disastro di Chernobyl era stato il lugubre presagio, svelò la povertà talvolta estrema in cui versavano le ex-repubbliche popolari in quell’immensa e sconfinata massa eurasiatica che dalla Cortina di Ferro culminava a Vladivostok e a Pyongyang. In Occidente l’epilogo della Guerra Fredda fu con un certo pressapochismo decantata come la fine della storia: il modello occidentale democratico e capitalistico era l’unico possibile ed il solo ad aver innescato un autentico sviluppo. Oggi invece è questo stesso modello a traballare, sollecitando le scienze umane a rinnovarsi profondamente. I funesti preludi di una svolta epocale imminente sono resi ben visibili dalla scesa in campo di nuove forze politiche che vagheggiano mutamenti radicali. Non è facile intravedere la direzione che imboccherà la società contemporanea se non saranno implementate delle politiche di stabilizzazione, ma è già presente qualche dimostrazione, seppure ancora indefinita. Così, guardando alla riforma costituzionale polacca, a Putin, a Orban, a Erdogan, a Trump e alla Brexit, si è arrivati a teorizzare la “democrazia illiberale”. Questa sarebbe una democrazia poiché trarrebbe la sua legittimazione da metodi perfettamente democratici (elezioni e referendum) per ricorrere tuttavia a metodi illiberali ed estranei a una democrazia (si pensi al trattamento riservato dall’Ungheria ai migranti o alla proposta poi naufragata di indurre le aziende britanniche a dichiarare la quota di stranieri da loro impiegati) e per ridefinire o smantellare proprio la stessa globalizzazione.
Stefano Ghilardi