“Immaginiamo un mondo in cui le persone si muovano liberamente, attraversino le frontiere con un semplice passaporto, senza visti, senza confini, senza zone di attesa né centri di detenzione, dove gli accompagnamenti alle frontiere non riguardino più coloro che non hanno i documenti in regola ma soltanto coloro che possono costituire un rischio per la sicurezza dello Stato” (Wihtol de Wenden, 2015).

L’introduzione al saggio in questione si fonda sulla necessità di affrontare una tematica piuttosto insidiosa: il diritto di migrare. Tale diritto, oltre allo spostamento e alla mobilità in sé, focalizza l’attenzione sulla necessità di avere un rifugio o, più semplicemente, sulla possibilità di cercarsi una collocazione in un paese diverso da quello di appartenenza. Il diritto in questione però si scontra con i numerosi muri e chiusure delle frontiere che si sono via via moltiplicati e accompagnati addirittura da una militarizzazione dei controlli: ciò che è in gioco non è tanto la retorica umanitaria che resta comunque dominante ma la mancanza di una vera e propria proposta operativa di natura umanitaria (Wihtol de Wenden, 2015).

Il sociologo polacco Zygmunt Bauman

Dai primi tentativi di una formalizzazione del diritto di migrare, quali ad esempio Locke e Kant, la dialettica sui confini offre tuttora spunti e diatribe infinite. Nei Due trattati sul governo (Locke, 1689) l’autore metteva in contrapposizione l’emergere del liberalismo e la mobilità umana difendendo quest’ultima; nell’Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico (Kant, 1784) vi è una prima formalizzazione del concetto di “cittadino del mondo” inteso come essere umano di un unico territorio e condannato a vivere insieme ad altri cittadini; nel Progetto di pace perpetua (Kant, 1795) l’autore pone l’attenzione sulla differenza tra il “semplice” diritto di essere accolti in casa, inteso come una mera visita, e il diritto di offrirsi ad essere parte integrante di una società a sua volta capace di mettere in risalto la libertà dell’essere umano. Bauman (2007) infine sottolinea come l’unica possibilità dell’essere umano sia quella di vivere insieme in un mondo pieno partendo dall’incipit kantiano del “cittadino del mondo”. Tuttavia tale idealizzazione si scontra con lo Stato moderno, il quale preoccupandosi di vigilare e dominare gli spostamenti umani attraverso determinati strumenti (frontiere, passaporti, visti..), evidenzia la mancanza di un sistema istituzionale globale in grado di regolarizzare il principio etico in questione. La creazione di tale sistema diventa quindi lo spartiacque verso una cittadinanza mondiale nella quale lo Stato si erge come protagonista assoluto: una molteplicità di appartenenze e una mobilità estrema che permettono di designare una cittadinanza “del” mondo anziché “nel” mondo.

Il murales antirazzista di Banksy

Seguendo questa logica, la narrazione sui confini si riempe di significati. Seguendo questa logica, il confine si presta a una necessaria riduzione dei suoi significati assumendo la semplice immagine di una linea tracciata sulla mappa. Ma la storia del confine come linea rimane solamente un’invenzione della modernità europea, una storia tutt’altro che “formale” (Mezzadra, 2018). Il confine, in prima istanza, rappresenta la condizione di esistenza e di senso del territorio di riferimento definendo la funzione costitutiva rispetto al popolo e alla cittadinanza che ne sancisce i diritti. Inoltre esso rappresenta una delle maggiori cause dei conflitti che caratterizzano la storia contemporanea: dal Mediterraneo alle ultime vicende legate dalla situazione tra gli Stati Uniti e il Messico i conflitti sono generati dalla situazione migratoria e attorno a questi confini, si muore. I processi di esternalizzazione legati alla retorica del confine retroagiscono a loro volta nei confronti degli spazi che dovrebbero delimitare determinando particolari politiche di controllo: il confine lineare continua dunque a giocare un ruolo importante nella vita di milioni di persone.

Assodata tale importanza, la matrice di senso che ne è alla base assume diverse forme e diverse sfaccettature e ogni gruppo sociale ne attribuisce un valore differente. In particolare, la politica e i leader politici che si ispirano a principi illiberali riempiono la narrazione dei confini attraverso una retorica della chiusura: il confine diventa un sinonimo di muro dove la paura, strumentalmente amplificata dalle forze politiche, ne giustifica l’innalzamento. Il fenomeno migratorio assume l’impatto di una “crisi” da gestire e lo Stato diventa un territorio da salvare nei confronti del migrante-invasore: in questa cornice, l’esternalizzazione del confine assume un ruolo fondamentale nelle pratiche discorsive e nelle strategie di rappresentazione veicolate dai media e dall’immaginario che essi ne nutrono. Tali rappresentazioni influiscono e definiscono il senso della migrazione al punto da considerarla come un fenomeno in costante emergenza (Musarò e Parmiggiani, 2018). In questo scenario il “cittadino del mondo” diventa protagonista di una crisi intesa come il prolungamento di categorie interpretative che delineano il migrante come un problema da risolvere: nei termini di una più ampia crisi culturale e soprattutto politica, il fenomeno migratorio viene investito da un’immagine negativa derivata da un’opinione pubblica veicolata. Nell’ottica del migrante inteso come una minaccia (Mezzadra e Neilson, 2013), il confine in questione diventa lo scenario ideale per definire una dinamica di “dentro/fuori” caratterizzata da una retorica di chiusura in cui i soggetti diventano oggetti di paura: tale retorica rappresenta dunque lo scontro tra chi ha la possibilità di narrare – nonché chi ha gli strumenti per farlo – e chi è costretto ad essere narrato.

Per riuscire ad andare oltre tale strumentalizzazione del confine, risulta necessario abbattere i muri della retorica dominante attraverso altre chiavi interpretative cercando di produrre una visione diversa di alterità e di solidarietà. Una volta appurato uno scenario piuttosto lontano da quello di un “mondo senza confini” causato dal fenomeno della globalizzazione, è proprio il confine che indica e stabilisce una diversità: la linea di demarcazione determina l’eccezionalità di un luogo e, tramite esso, l’unicità di un popolo e la conseguente cultura che ne deriva. È sul confine che dobbiamo riconoscere l’altro in quanto essere umano e considerarne pari dignità: il confronto con lo straniero permette di identificare e valorizzare la differenza, permette di cogliere il senso di se stessi attraverso un altro punto di vista. Non si tratta dunque del semplice confronto – il quale sicuramente è fonte di arricchimento sia personale che culturale – ma, sulla base di un riconoscimento in quanto essere umano, l’altro rappresenta ciò che io potevo essere nonché un’alternativa alla mia soggettività. In questo senso, chi è oltre quel confine – non più generatore di conflitti – ci permette di avere una visione diversa del sé attraverso ciò che siamo e ciò che non siamo simultaneamente (Bevilacqua, 2016). Superando la retorica della chiusura e la categorizzazione del migrante che ne consegue attraverso stereotipi e pregiudizi, la diversità culturale risulta essere una ricchezza, un valore, una risorsa. Accettare il confine significa dunque accettare la diversità in modo da vederla come un’opportunità e non come una minaccia: per farlo serve teorizzare l’incontro con l’altro attraverso un’apertura reciproca e il riconoscimento di una dimensione mondiale di una società multiculturale, divisa da semplici cornici di senso.

Non si tratta dunque di impedire il fenomeno migratorio o veicolare l’opinione che si ha attraverso strumenti specifici, ma di gestirlo in modo da considerare tutte le parti in causa come cooperanti tra di loro attraverso una comprensione diversa: “le migrazioni non sono un gioco a somma zero; sono un gioco in cui si potrebbe non avere un unico vincitore” (Wihtol de Wenden, 2015). Di conseguenza l’elogio ai confini, intesi come opportunità di incontro, deve partire dal concetto di soggettività in quanto uguale e diversa allo stesso tempo, unita al fatto di appartenere alla medesima specie: l’essere umano.

Vito Aliperta

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