L’efficacia comunicativa delle immagini sacre ha fatto sì che esse siano state e continuino ad essere oggetto di violente ondate di distruzione: Torri Gemelle come emblema dell’imperialismo americano, statue di Buddha, sede di Charlie Hebdo. Tra le conseguenze di queste ondate ne va segnalata una in ordine dialettico: negare un’immagine significa affermarla, riconoscerla nella sua potenza viva come un nemico da affrontare e da battere.

I motivi della distruzione

Un ulteriore paradosso è rappresentato dall’uso che le diverse fazioni dell’estremismo islamico fanno delle piattaforme globali per diffondere gli stessi atti di distruzione delle immagini. Tuttavia sarebbe semplicistico ricondurre gli atti vandalici a motivazioni unicamente teologiche, senza tener conto delle variabili economiche, sociali, militari e politiche: la Venere di Velazquez sfregiata per attirare l’attenzione sulle suffragette o il distruggere un’opera d’arte per crearne un’altra. A tal proposito si distingue tra iconoclastia, quando noi sappiamo cosa sta succedendo nel momento in cui si distrugge qualcosa, e iconocash, che esprime la difficoltà di fronte ad un’azione distruttiva di capire senza ulteriori indagini se sia costruttiva o distruttiva.

Il montaggio della realtà

Partendo dal presupposto che la violenza si mette sempre in immagine, la sovrabbondanza di materiale iconografico è alimentata non solo dalla copertura degli eventi assicurata dai network internazionali e dai video più o meno ufficiali, ma anche da trasmissioni che inviano direttamente giornalisti sul posto. A partire dall’invenzione della fotografia e dalla diffusione di macchine fotografiche economiche e portatili, si è avvertita la necessità di produrre immagini sul modello del “io c’ero”. Susan Sontag, riferendosi alle fotografie scattate nella guerra in Vietnam, sottolinea che le intenzioni del fotografo non determinano il significato di una foto che avrà vita propria. Esse possono essere interpretate tanto come atti di accusa antimilitaristici, tanto come orgogliose rappresentazioni dell’eroismo americano. Il suo significato scaturisce quindi non in modo autoevidente ma all’interno di un atto di de-contestualizzazione critica e riqualificazione semantica dell’immagine. Sarebbe inoltre ingenuo contrapporre in modo rigido documentazione del reale e produzione creativa: se nell’era prefotografica l’immagine dipendeva ontologicamente dalla realtà, dopo l’avvento della fotografia il reale è diventato funzionale della sua messa in immagine. È accaduto il reale perché abbiamo la fotografia.

Manipolazione della realtà

Tutte le tecniche pervasive di controllo e di catalogazione dei corpi si scontrano con l’esigenza individuale di autodeterminazione, rappresentazione del sé e presentazione della propria identità messa in immagine. E proprio il selfie, autoritratto individuale o di gruppo, ottenuto con smartphone o webcam e condiviso su Facebook, Instagram e Twitter, costituisce un imponente fenomeno di massa relativo all’autopresentazione. La sua diffusione planetaria solleva la questione di quello che è stato definito “oversharing” ovvero profluvio narcisistico di auto-rappresentazioni condivise. Nella possibilità di correggere le proprie immagini grazie ad app di editing si ravvisa non solo l’ennesimo caso di manipolazione della verità e di dissimulazione cosmetica ma anche un ambito di autodeterminazione dei soggetti che si sottraggono alle forme istituzionali di irreggimentazione dei corpi.

Carmen Pupo

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