Il concetto di dominio nell’ambito della Sociologia Politica è stato scardinato da Max Weber, che lo distingueva da quello di potere, evidenziandone la natura plurale e, squisitamente, politica; legato, inevitabilmente, alla dimensione patemica e valoriale dell’attore sociale o della forma di governo che lo esercita.

L’era odierna è un calderone di pratiche di dominio: politiche, simboliche, iconologiche, iconoclastiche e, infine, sociali e culturali. Basti analizzare i più recenti episodi concernenti la condizione di totale subordinazione delle donne afghane o le pratiche dominanti imposte alle donne iraniane; le molteplici pratiche di controllo sociale, perduranti e reiterate, mosse nei confronti delle minoranze, dei migranti e di tutti coloro che, secondo la retorica “sviluppista”, debbano “stare a casa loro” o dei giovani considerati nullafacenti e bamboccioni da una società sempre più inetta a vivere.

Il dominio maschile oggi

Un dominio subdolo, celato da intenti benevoli e retoriche paternalistiche, frutto di espedienti narrativi, che connotano qualsivoglia argomentazione di chi sta al potere. Donne negate in Afghanistan, immagini censurate, identità annichilite, ma anche femminicidi, schiavitù, prostituzione delle più deboli; morti in mare e disquisizioni politiche relative alle politiche di gestione dei migranti, inesorabilmente ancorati al colore politico in carica. 

Il dominio non conosce genere, né nazionalità. Nato con il colonialismo, si è istituito con la retorica delle forme di governo più moderne. Di fatto, segue la storia. A tal proposito, ricorda Bourdieu, esso è “storicamente strutturato”. Segue le logiche cronologiche del tempo ed è contingente, tanto da adattarsi ad ogni forma di sistema sociale.

La violenza simbolica per Bourdieu

L’etnografia condotta dal Sociologo francese, pubblicata nel 1998 dall’editore Seuil, nel testo dal titolo: “La domination masculine”, esplica al meglio tale assunto. Investigando la definizione dei ruoli sociali legati alle identità di genere presso i Kabili di Algeria, Bourdieu, ne sviscera la natura dominante e storicamente costruita. Le donne erano dedite ai compiti più semplici e beceri, mentre gli uomini rappresentavano al meglio, il dominio maschile, attraverso la violenza simbolica atta a rimarcare quale fosse il loro posto nel mondo; ostentando virilità e forza.

La violenza simbolica  incorporata alla stregua di “strutture strutturanti” e di Habitus introiettati, per parafrasare il sociologo,  attraversa ogni forma di realtà e pratica sociale. Oggi più che mai siamo in balia di pratiche di violenza simbolica e politica. Ma cos’è la violenza simbolica nella fattispecie presentata da Bourdieu?

«È la forma della sottomissione paradossale […] La violenza simbolica che deve essere, apparentemente, dolce e naturale».

Un dominio simbolicamente connotato

Ciò vale sia per gli uomini che per le donne, la cui posizione nel mondo dei berberi algerini è rintracciabile in una reciprocità dell’essere, poiché anche il maschio ha incorporato bene ed è vittima di questa strutturazione di genere e ruoli sociali: «Il privilegio maschile è anche una trappola e ha la sua contropartita nella tensione e nello scontro permanenti spinti a volte sino all’assurdo, che ogni uomo si vede imporre dal dovere di affermare in qualsiasi circostanza la sua virilità. Tutto concorre così a fare dell’ideale impossibile di virilità il principio di un immensa vulnerabilità che porta, paradossalmente, all’investimento, a volte forsennato, in tutti i giochi di violenza maschili come, nelle nostre società, gli sport e, in modo particolare, quelli più adatti a produrre segni visibili della mascolinità e a manifestare e provare le qualità dei virili, come gli sport fondati sullo sfondo fisico diretto (pp.62-63)».

Il sociologo francese Pierre Bourdieu

Un’ agentività reciproca tra gli attori maschili e femminili, che costruiscono pratiche sociali strutturate dalla società e le esternalizzano al terzo soggetto recipiente, e reiterandolo nel tempo lo conservano e lo strutturato ancor di più nell’immaginario sociale e collettivo di appartenenza. Un dominio simbolicamente connotato, che afferisce alla dimensione sociale e domestica, poiché la prima forma di dominio è la famiglia, ricorda Bourdieu.

La violenza simbolica e politica

Ma oggi, qual è la forma più marcata di violenza simbolica e politica e di dominio maschile nel contesto nazionale e internazionale?

Indubbiamente, l’obbligo di indossare un velo ed ottemperare ai dettami imposti dai miliziani al potere in Medioriente, osteggiare immagini corporee alla stregua di trofei come fanno le/i “moderne/i”  influencers nei social; improvvisarsi haters e offendere gratuitamente il prossimo attraverso le pagine delle più recenti applicazioni, che rappresentano la degenerazione dell’Homme blasè di Simmeliana memoria; ancora, giudicare incondizionatamente le scelte altrui e la vita dell’Altro generalizzato, solo perché l’etnocentrismo dominante nella mente dell’Homo ludens, lo autorizza a sentirsi superiore.

Etichettare il prossimo perché proveniente da un Paese differente dall’Italia, per il colore della pelle, o per il suo status sociale; rinnegare un modello ostentativo, tipico della società ottocentesca (Veblen), per poi riproporlo, puntualmente, per marcare identità sociali e scale di un sistema anacronistico; identificarsi come forti e virili, perpetuando violenza fisica, sessuale, psicologica e verbale, nei confronti delle donne, sempre più sole e in preda alla razzia di certe belve; ma il dominio supera la dimensione nucleare relazionale e giunge sino a quella lavorativa.

È noto che il gap di genere che connota tutti gli ambiti lavorativi, in Italia, in particolare, determina chi deve stare ai vertici di un’azienda e chi no, subordinando tale politica decisionale al genere d’appartenenza; e ancora, forme di dominio e di violenza simbolica e politica sono rintracciabili nelle retoriche argomentative di certi governi inclusivisti che, di fatto, bandiscono le donne da ogni forma di potere; insieme con le retoriche propagandistiche di certi slogan tutt’altro che dediti all’empowerment femminile, bensì alla collocazione liminale delle suddette nella scala sociale delle identità. 

Valeria Salanitro

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