Mentre Freud, all’alba del XX secolo, pubblicava “L’interpretazione dei sogni“, nasceva a Francoforte sul Meno un altro grande psicanalista e pensatore sociale: Erich Fromm (1900-1980). Tra i più noti esponenti della Scuola di Francoforte, Fromm ci ha consegnato alcune opere indimenticabili, caratterizzate da uno stile facile e sincero ma non per questo superficiale. Al contrario, lavori come “Fuga dalla libertà” (1941) e “L’arte di amare” (1956) rappresentano dei veri e propri capisaldi della psicologia sociale, ovvero della disciplina che studia i rapporti tra individuo e gruppi. La summa del pensatore tedesco, tuttavia, può essere rintracciata in altri due testi fondamentali, ai quali ci apprestiamo in questo articolo: il volume collettaneo “Studi sull’autorità e la famiglia” (1936), curato da Horkheimer, e “Avere o Essere?“, vero e proprio opus magnum di Fromm. Prima di discutere gli argomenti di queste due opere è però opportuno inquadrare brevemente il contesto nel quale Fromm avanzò le sue ricerche.
La Scuola di Francoforte
Fondato da Max Horkheimer nel 1923, l’Istituto di Francoforte fu teatro di una delle più mirabili imprese teoriche avanzate da un collettivo di studiosi. Tra i suoi principali esponenti si ricordano in particolare, oltre allo stesso Horkheimer, Theodor Adorno, Herbert Marcuse, Erich Fromm, Walter Benjamin e Jurgen Habermas: quest’ultimo è l’unico autore della cosiddetta “Scuola di Francoforte” ancora in vita. Si trattava, comunque, di un insieme di intellettuali molto eterogeneo quanto a studi e formazione. Se dovessimo trovare un punto in comune tra i Francofortesi, si potrebbe dire che questo stava in un’ambizione non da poco: rinnovare la vacillante ricerca sociale marxiana, messa in crisi tanto dalle peculiari circostanze storiche (riconducibili alle contraddizioni della Repubblica di Weimar e a quelle dell’URSS) quanto dalla crisi del Positivismo che ne scalfì dogmi e dettami. Questa già ardua impresa fu ulteriormente ostacolata dall’avvento del nazismo, che costrinse l’Istituto e i suoi componenti a fuggire in America. L’esilio, tuttavia, permise agli studiosi di allargare i propri orizzonti e confrontarsi con lo studio della società di massa e dell’industria culturale, fenomeni che negli USA erano decisamente più avanzati che in Europa. Ad ogni modo, nel Vecchio come nel Nuovo Mondo, l’obiettivo di rinnovare il pensiero marxista fu perseguito soprattutto con il recupero della nozione marxiana di alienazione e con l’integrazione della psicanalisi. Il senso di questa operazione voleva essere quello di spiegare i motivi per cui la rivoluzione comunista non riusciva ad affermarsi o, se ci riusciva, lo faceva instaurando sanguinose dittature totalitarie. Protagonista di quest’ambiziosa commistione tra Freud e Marx fu soprattutto Fromm.
La psicanalisi umanista
Già nei primi anni Venti, lo psichiatra Wilhelm Reich articolò un approccio noto come freudo-marxismo secondo cui la salute psichica dell’uomo non poteva realizzarsi se non con l’abbattimento dell’attuale struttura sociale. Reich sosteneva inoltre che la rivoluzione potesse realizzarsi solo attraverso l’uso congiunto degli strumenti propri del marxismo e della psicanalisi. Gli studi di Reich, forse troppo pionieristici per essere apprezzati dai suoi contemporanei, trovarono un approfondimento e una riformulazione più adeguata nella Scuola di Francoforte e in particolare nei contributi di Fromm, che conobbe Reich e ne seguì gli studi. L’obiettivo di Fromm era quello di trasporre le rivoluzionarie intuizioni di Freud dal piano individuale a quello sociale. Le atrocità del secondo conflitto mondiale, infatti, costrinsero un’intera generazione a chiedersi cosa poteva spingere a giustificare una tale barbarie. Il contributo principale di Fromm e della sua psicanalisi umanista fu quello di svelare un’importante verità: che i meccanismi di difesa e rimozione propri dell’individuo patologico caratterizzano anche gruppi estesi, finanche intere società. Quanto veniva prefiguarto da Freud ne “Il disagio della civiltà” viene portato a compimento da Fromm, secondo cui, per l’individuo, il Super-Io non è più necessariamente l’introiezione della figura paterna, ma della società intera e dei vincoli che essa impone all’individuo.
Famiglia e autorità
Paradossalmente, però, questo meccanismo viene affrontato dal singolo con l’individuazione, la predilezione e finanche l’identificazione in una figura autoritaria, con la distruttività e il conformismo, e solo eccezionalmente con la ribellione, l’amore e la lotta per la libertà. Questi ultimi valori saranno oggetto delle già citate ricerche degli anni ‘40 e ‘50, ma è già negli anni ‘30 che Fromm elabora una “psicologia del nazismo” di cui troviamo la chiave nel testo redatto insieme a Horkheimer e Marcuse, “Studi sulla famiglia e l’autorità“. Il testo è fondamentale nella misura in cui consacra la famiglia quale agenzia di socializzazione per l’individuo, ovvero come struttura che gli insegna a vivere, come l’anello mancante tra individuo e società. Ma il carattere dirompente dell’opera sta nella lungimirante intuizione per cui è l’evoluzione della famiglia in senso borghese e capitalistico a favorire le personalità autoritarie. La famiglia borghese è infatti incapace di formare individui autoresponsabili e anzi, al contrario, favorisce la repressione degli impulsi libidinali. L’individuo, dunque, accumulando repressione, non avrà modo di sviluppare un Io responsabile ed equilibrato, e tenderà ad affidarsi tout court a un leader autoritario che promette di soddisfare i suoi bisogni, spesso attraverso l’individuazione di un capro espiatorio.
Avere o Essere?
“Avere o Essere?” è sicuramente il lavoro più celebre e completo di Fromm. Pubblicata nel 1976, l’opera segna l’addentramento di Fromm in questioni più propriamente filosofiche ed ontologiche ma nondimeno sociologiche, incentrandosi su quella società dei consumi che proprio negli anni ’70 vedeva il suo apice ma anche l’inizio della sua crisi. Sulla base dei suoi studi e della sua attività psicanalitica sui pazienti, Fromm arriva ad individuare due modalità basilari di esistenza per l’essere umano – l’Essere e l’Avere – constatando che, se la prima ha a lungo dominato la Storia, la seconda è padrona del Presente. Essere ed Avere sono due modi di vivere e definire se stessi e il mondo. Nella modalità dell’Essere, l’uomo è ciò che è, e non ciò che ha o ciò che la società vuole che sia. Ciò che è necessario è già dentro di sé e, per questo motivo, le attività di chi vive secondo la modalità dell’Essere sono creative e non alienate, contrariamente alla fruizione passiva e alienata di chi vive nell’Avere. L’obiettivo dell’Essere è conoscere il mondo e se stessi, farne esperienza, ricercare l’amore e la libertà, mentre lo scopo dell’Avere è l’agire per il possesso e l’accumulo di beni materiali. A tal proposito, uno dei passi più significativi dell’opera consiste in un parallelismo tra l’uomo tipico della società consumista e la personalità anale già tracciata da Freud in quei suoi pazienti bloccati appunto nello stadio anale dell’infanzia e caratterizzati da una personalità possessiva ed egotica. Essere e Avere, però, non riguardano solo la vita, ma anche la morte, nella misura in cui questa è accettata ed elaborata dall’Essere ma è totalmente rifiutata dall’Avere, che si illude di poter sopravvivere ad essa e al susseguente vuoto tramite il possesso delle merci.
Ecco dunque che l’opera di Fromm, nella sua straordinaria complessità, muove da un’impostazione propriamente psicologica per arrivare a profonde intuizioni filosofiche come anche a teorie sociologiche sulla famiglia, sugli ordinamenti politici, sulla società di massa e sui consumi. Teorie che trovano ancora un preoccupante riscontro nella nostra società, schiacciata tra populismi autoritari e consumi alienati.
Stefano Oricchio