Sono passati pochi giorni dall’anniversario dello scoppio della pandemia da SARS-COV-2 nel nostro paese, pochissimi credevano che sarebbe durata così a lungo, eppure siamo ancora qua a combattere contro la frustrazione che questa condizione comporta e a procedere imperterriti nel tentativo di digerire attraverso il pensiero e la condivisione questa montagna di realtà. L’intento di questo articolo è di avanzare una lettura della nostra condizione prima e dopo la pandemia attraverso alcuni concetti chiave tratti dal pensiero di Ernesto De Martino e raccolti nel testo La fine del mondo[1] pubblicato postumo nel 1977 in cui l’antropologo fornisce un’interessante chiave di lettura dell’epoca che stiamo vivendo in un attento confronto con numerosi campi del sapere, tra cui la psicopatologia con particolare riferimento ai contributi della psichiatria fenomenologica.

Un mondo che può (ma non deve) finire

In uno scritto del 1964 De Martino riassume così la posizione dell’uomo all’indomani della seconda guerra mondiale:

“Se dovessi individuare la nostra epoca nel suo carattere fondamentale, direi che essa vive come forse non mai è accaduto nella storia nella drammatica consapevolezza di questo deve e di questo può: nell’alternativa che il mondo deve continuare ma che può finire, che la vita deve avere un senso ma che può anche perderlo per tutti e per sempre.”[2]

Il mondo deve continuare perché non è possibile alcun pensiero al di fuori di esso, al contempo il mondo può finire, la seconda guerra mondiale con le bombe atomiche e i sei milioni di ebrei morti nei campi di sterminio lo aveva mostrato chiaramente. Per comprendere meglio ciò che intende l’autore quando parla di “fine del mondo” è utile precisare che egli si riferisce alla caduta di ciò che chiama ethos del trascendimento della vita, ovvero “il compito primordiale e inderivabile che appunto fa passare dall’ordine della vitalità a quello dell’umanità cioè della valorizzazione intersoggettiva della vita”[3].

La spinta dell’umanità

Si tratta di un concetto complesso che può essere inteso come la spinta attraverso cui trascendiamo la vita e accediamo all’universo dei significati e dell’intersoggettività.

Ernesto de Martino
Ernesto de Martino

Ebbene, secondo De Martino questa spinta che fonda l’umanità dell’uomo e che sta alla base della possibilità stessa di abitare un mondo culturale, ha acquisito un importanza centrale nello Zeitgeist degli esseri umani, siamo nel 1964: i conflitti mondiali avevano alterato gli equilibri di potere, i campi di sterminio avevano reso possibile il terrificante pensiero che si potesse eliminare un’intera categoria di persone, i sistemi culturali magico-simbolici che avevano sorretto la vita comunitaria si dissolvevano all’interno di una sempre più imponente cultura di massa di matrice capitalista. Sessanta anni dopo possiamo chiederci cosa è cambiato rispetto ad allora, come ha reagito e sta reagendo l’umanità a questa consapevolezza di una fine che può arrivare? E quali effetti sta producendo su questo piano, la pandemia che stiamo attraversando?

La crisi dei genitori e il dramma dei figli

Nel tentativo di rispondere almeno alle prime due domande ritengo utile guardare agli adolescenti, ovvero a coloro che nella difficoltà di trascendere la vita, di partecipare ad un mondo culturale, ci sono nati dentro. Oggi si riflette molto sulla psicopatologia dell’adolescenza a causa dell’aumento esponenziale di fenomeni come ritiro sociale, disturbi dell’alimentazione, condotte autolesive e antisociali e suicidi relativi a questa fascia d’età.

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Utilizzando l’ethos del trascendimento come organizzatore di senso De Martino vedeva nella melancolia della sua epoca la catastrofe del doverci-essere (nella caduta dell’ethos): “il melancolico porta colpa non già di questo o di quello, […] ma di vivere il crollo dell’ethos del trascendimento, di essere in questo crollo, di essere trascinato dal mutamento di segno del doverci essere nel mondo, di non potersi mai porre, in nessun momento del vivere, come centro di decisione e di scelta secondo valori intersoggettivi”[4].

Finanzcapitalismo

Seguendo il ragionamento dell’Autore possiamo quindi immaginare che gli adolescenti di oggi, figli e nipoti di quella melancolia vivano a loro volta una catastrofe, quella del non-poter esserci nel senso del “non sapere come” esserci, ovvero la condizione drammatica di chi vorrebbe, spinto dalla vita stessa, dare valore alle cose e accedere al mondo intersoggettivo, ma al contempo non sa come fare, non riesce a trovare un aggancio. La vita di molti adolescenti sembra ruotare attorno alla sensazione, alla paura (e al fascino) di essere irrilevanti.

La storia e la tradizione non sono d’aiuto, il mondo artistico e intellettuale fatica ad trovare cornici di senso e la società stessa, trasformata da quell’enorme dispositivo che Gallino (2011)[5] ha definito finanzcapitalismo sembra non avere più nulla da offrire al di là di una logica di mercato che permea le relazioni sociali e trasforma ogni cosa, persino gli affetti, in oggetti di consumo. Nell’estrema difficoltà di assecondare la spinta morale che li farebbe sentire parte dell’umanità e attori culturali, gli adolescenti arrivano a rivoltarsi contro la loro stessa vita, attaccano il proprio corpo come nel caso dell’anoressia e delle condotte autolesive, si sottraggono alla vita sociale ritirandosi, attaccano il mondo da cui si sentono tagliati fuori come nelle condotte antisociali.

Il problema del senso

Ragionare in questi termini espone al rischio di una eccessiva generalizzazione, non si vuole certamente minimizzare o trascurare l’unicità che ogni adolescente così come ogni essere umano, porta con sé né l’importanza sul piano clinico di sintonizzarsi con il mondo della vita dell’altro, caro ai fenomenologi. Tuttavia ritengo utile provare ad individuare delle cornici di senso complessive, in grado di situare gli esseri umani, la loro sofferenza, le loro azioni, all’interno di una comune esigenza. De Martino ci esorta in questo senso a “partire dall’ethos del trascendimento” sostenendo che:

“Gli stati psicopatologici come movimento di dissoluzione delle funzioni esistenti e come liberazione delle istanze soggiacenti, la concezione di una «forza» o di un sistema di forze organizzatesi nel tempo che, flettendosi, comportano le varie forme di regressioni mentali ecc. non hanno che un apparente significato interpretativo se non si parte dall’ethos del trascendimento, da una analisi della valorizzazione intersoggettiva come costitutiva della umanità, e da un apprezzamento storico-culturale dei dominanti livelli di valorizzazione e dei corrispondenti rischi di regressione, di flessione, di caduta.”[6]

De Martino, il covid e i giovani d’oggi

Gli adolescenti di oggi e le loro manifestazioni psicopatologiche mostrano chiaramente che il problema del senso che fa da sfondo a tutta l’opera di De Martino è oggi quantomai attuale e urgente. Le questioni di natura ideologica e religiosa che animavano gli uomini del passato hanno lasciato il posto a questioni di carattere globale connesse alla stessa sopravvivenza del genere umano. Harari (2018)[7] individua nel rischio di una guerra nucleare, nel collasso economico e ambientale e nell’avanzamento tecnologico incontrollato i principali problemi della nostra epoca e mette in risalto l’insensatezza di intervenire su di essi a livello di singole nazioni.

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Non è che un tempo non esistessero problemi riguardanti il mondo intero, la differenza sta nel fatto che oggi questi problemi (globali) interessano la dimensione locale come non era mai successo prima ponendo il singolo individuo in una condizione di confusione, inquietudine, se non addirittura di disarmante passività a cui è quasi impossibile sottrarsi e da cui è inevitabile difendersi. Il Covid-19 riproduce questa dinamica in modo esemplare e massivo costringendoci a fare i conti con le dimensioni più essenziali dell’esistenza, l’inevitabilità della morte, il bisogno di intimità, la paura della solitudine, e lo sta facendo chiamando sul palco il mondo intero, un mondo con cui in un modo o nell’altro siamo chiamati a confrontarci nel tentativo di individuare dei nuovi significati condivisi, di “salvare” quella dimensione intersoggettiva che rende possibile pensarci come una comunità umana.

Ripartire dalla fragilità, ripartire dall’Altro

L’impatto è forte, a tratti terrificante, è “tutto troppo” e il mondo non sembra davvero in grado di reggere il colpo. Il successo dei movimenti antidemocratici basati su una risposta paranoica alla complessità flirta curiosamente con il proliferare di gruppi sempre più numerosi di persone pronte a giurare che il virus non esiste e/o sicure che ci sia dietro un disegno più grande. Il senso di inquietudine e smarrimento che nasce dal bisogno di grandi narrazioni siano esse religiose o laiche sembra aver trovato nell’enorme portata della pandemia l’oggetto ideale su cui riversare la paura, l’ansia, la frustrazione e la rabbia delle nostre esistenze in crisi.

James Coleman: le radici dell'altruismo

De Martino si augurava che gli uomini, non potendo più attingere ad una forza trascendente situata fuori dal mondo sarebbero stati in grado di passare attraverso la consapevolezza della loro intrinseca fragilità e, a partire da qui, di mettersi al lavoro per rendere il mondo un posto migliore per tutti, un compito che nessuno può affrontare da solo e che di conseguenza pone noi tutti, come comunità, faccia a faccia con la dimensione della responsabilità. La responsabilità, in primis, di prendere posizione rispetto all’imperante individualismo che caratterizza la nostra cultura, all’idea (delirante) dell’uomo completo, che “si fa da sé”, che non ha bisogno dell’Altro, che non ha bisogno di sentirsi visto e riconosciuto come mancante.

Una simile speranza non può che apparire ingenua, addirittura utopica, tuttavia visto che il mondo deve continuare, è il caso di dire che “nonostante tutto siamo ancora qua” e che questa pandemia costringendoci a stare distanti per non farci del male ha fatto emergere per contrasto il piacere e la pienezza dello stare insieme, del trovarsi, condividere e confrontarsi, e con essi la fiducia che a determinate condizioni è ancora possibile accedere ad una disposizione democratica dalla quale possano nascere nuove idee, nuove soluzioni, nuovi modi di esserci.

Roberto Ardilio

[1] De Martino E. (1977) La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali. Torino, Einaudi.
[2] E. De Martino (1964) Il problema della fine del mondo, in P. Prini (a cura di), Il mondo di domani, Abete, Roma, pp. 225-31.
[3] E. De Martino, (1977, p. 174)
[4] E. De Martino, (1977, p. 175)
[5] Gallino L. (2011) Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi. Torino, Einaudi.
[6] E. De Martino, (1977, p. 174)
[7] Harari Y. N. (2018) 21 lezioni per il XXI secolo. Milano, Bompiani.

Riferimenti bibliografici


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