Secondo la fenomenologia, l’istituzione sociale rappresenta un programma per l’azione: accostandosi ad essa, l’individuo sceglie di percepire intimamente un percorso educativo e formativo più o meno vincolante per ottenere un’identità individuale e/o collettiva da esercitare nel tempo. Il matrimonio, come anche la Chiesa, sono da considerarsi un esempio. Alcune istituzioni, però, agiscono con un potere inglobante più compromettente di altre (simbolizzato nell’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno, concretamente fondato nella struttura fisica dell’istituzione): il sociologo statunitense Erving Goffman, in “Asylums”, usa l’appellativo di “totali” per definirle.

Le istituzioni totali

L’individuo tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità o senza alcuno schema razionale: caratteristica principale delle istituzioni totali può essere appunto ritenuta il dover “manipolare” molti bisogni umani per mezzo dell’organizzazione burocratica di intere masse di persone, sia che si tratti di un fatto necessario o di mezzi efficaci cui la comunità ricorre in determinate circostanze. Secondo l’autore, l’istituzione totale è un “ibrido sociale”, in parte comunità residenziale, in parte organizzazione formale e se ne possono distinguere cinque categorie:

– le istituzioni nate a tutela di incapaci non pericolosi (case di riposo per anziani);
– luoghi adeguati a tutelare e tutelarsi da coloro che, incapaci di badare a se stessi, rappresentano un potenziale pericolo, anche se non intenzionale, per la comunità (ospedali psichiatrici);
– istituzioni atte a proteggere la comunità da individui realmente pericolosi in cui il benessere del segregato non risulta la finalità immediata (penitenziari, campi di prigionia, campi di sterminio);
– istituzioni create al solo scopo di svolgere una determinata attività (furerie militari, collegi);
– luoghi atti alla preparazione spirituale per religiosi (abbazie, monasteri, conventi ed altri tipi di chiostri).

L’assegnazione di una nuova identità

L’insieme dei propri effetti personali ha un particolare rapporto con la sfera soggettiva di ogni individuo (Sé): l’essere umano necessita infatti di un “corredo per la propria identità” per mezzo del quale poter manipolare la propria esteriorità ed esercitare una sorta di controllo sul modo in cui appare altri. Ma, al momento dell’ammissione nelle istituzioni totali, l’individuo viene privato del suo aspetto abituale e degli strumenti con cui preservarlo, soffrendo così di una mutilazione personale. Abiti, pettini, cosmetici, asciugamani, saponi profumati, rasoi da barba: tutto ciò può essergli rifiutato con la promessa di essergli restituito se e quando lascerà l’istituto. Goffman considera questa forma di controllo un meccanismo di profanazione e di contaminazione per mezzo del quale il significato simbolico degli eventi all’interno dell’istituzione, fallirà drammaticamente lo scopo di rinforzare il suo concetto di persona. In una società civile inoltre, quando un individuo è costretto ad accettare circostanze che contrastano con il concetto che ha di sé stesso, gli è consentito un margine di reazione con cui difendersi: muso lungo, sospensione dei segni di deferenza abituali, parlar male degli altri sottovoce o mostrare qualche fugace espressione di disprezzo, ironia o derisione. L’abitudine al rispetto imposta nelle istituzioni totali, ci offre un esempio pratico del fenomeno definito da Goffman come “circuito”: l’individuo prova così che la reazione difensiva agli assalti del proprio Sé viene divorata dalla situazione, nel senso che, non potendo difendersi nel modo abituale, è costretto ad assumere un atteggiamento “distante” allo scopo puramente difensivo.

Forme di resilienza passive e attive

Capita che l’individuo, confrontandosi con l’istituzione, non sia in grado di identificarsi con essa. Si verificano allora ciò che Goffman definisce “adattamenti secondari”, ovvero comportamenti istintuali atti ad ottenere una soddisfazione proibita dal sistema interno e dalla natura vagamente sovversiva. Ve ne sono forme diverse:

– il ritiro dalla situazione: l’internato riduce la propria partecipazione attiva alla sola soddisfazione dei bisogni primari;
– la linea intransigente: l’internato sfida intenzionalmente l’istituzione rifiutando apertamente di cooperare. Ne risulta un’intolleranza costantemente espressa e talvolta un alto spirito individualistico. La scelta di continuare a rifiutare l’istituzione totale richiede spesso di mantenere un certo interesse nei confronti della sua organizzazione ufficiale ed ufficiosa quindi, paradossalmente, ne deriva un profondo coinvolgimento;
– la colonizzazione: la parte di realtà di cui l’organizzazione provvede l’internato, è da questi vissuta come se si trattasse di tutta la realtà, viene cioè a costruirsi un’esistenza stabile e relativamente felice basata sul massimo delle soddisfazioni che l’istituzione può offrire. Il mondo esterno serve come punto di riferimento per dimostrare quanto la vita istituzionale sia desiderabile;
– la conversione: l’internato sembra assumere su di sé il giudizio che in genere lo staff ha di lui e tenta di recitare alla perfezione il proprio ruolo. Mentre l’internato “colonizzato” si costruisce un mondo, per quanto gli è possibile libero, sfruttando i pur limitati vantaggi ottenibili, l’internato che si è “convertito” segue una linea più disciplinata, più moralistica e monocromatica, presentandosi come colui che mette a completa disposizione dello staff il suo entusiasmo istituzionale. Nei campi di concentramento, ad esempio, alcuni prigionieri arrivavano ad adattare il vocabolario, gli svaghi, l’espressione aggressiva, a quelli della Gestapo.

Giulia Marra

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