Il velo, l’hijab, il burqa. Termini che hanno un riscontro “visuale” nell’immaginario collettivo, ma che peccano di prospettive multidimensionali. A riguardo, la sociologia affronta la questione da due punti di vista: uno storico-analitico, uno femminista.

Il velo nella storia

Di solito si riconduce il termine “velo” al capo di abbigliamento, detto hijab, usato dalle donne di religione islamica. Due elementi, però,  gli conferiscono un significato di ampio spettro: l’elemento storico e l’elemento culturale. Il velo affonda le sue radici nel XII secolo a.C. con gli Assiri: ai tempi era indossato dalle donne nobili, ma proibito alle prostitute e alle donne più povere, per la sua natura sociale e non religiosa. Altri esempi li ritroviamo nel mondo anglosassone e anglonormanno, ma anche nel mondo cristiano, oltre che musulmano. Basti pensare al velo che indossano, tuttora, le suore cattoliche; o anche ai tipici copricapi del tradizionalismo italiano, meridionale e isolano. In Sardegna e in Sicilia non è insolito incontrare signore con dei copricapi legati sotto il mento, spesso di colore nero o decorati con trame tipiche della cultura autoctona. Riferendoci al senso culturale del velo, troviamo la separazione fisica tra quello che William Graham Sumner chiama “in-group” e “out-group”. L’in-group è il gruppo di riferimento della donna/persona che indossa il velo, mentre l’out-group è il gruppo che non lo indossa: l’uomo/alter e il velo, in questo caso, è la linea di demarcazione dei due spazi di genere. Poi, la separazione fisica si accompagna ad una separazione, per così dire, cognitiva: il velo è simbolo di una cultura specifica che divide i ruoli tra chi lo porta e chi non; in tale accezione esso non è più un abito, ma un habitus.

Il valore sociale del velo

Tornando al discorso del velo tipicamente islamico ci soffermeremo sul suo valore strumentale. Innanzitutto, il termine arabo “hijab” significa “rendere invisibile, celare allo sguardo, nascondere, coprire” applicando quest’accezione alla pratica islamica di Maometto: è la donna la figura destinata a nascondere il proprio aspetto.

“E di’ alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quel che di fuori appare”
(l’aya 31 della sura XXIV al-Nūr, “La luce”)

In realtà non c’è un’unica interpretazione sul perché le donne, secondo Maometto, debbano usare il velo: alcuni interpreti parlano di pudicizia, altri di mezzo di incontro col divino. Comunque, soffermandoci sull’aspetto strumentale del velo quale modo di subordinare la donna alle direttive maschili, è rilevante la tesi dello storico Marco Cavina. Secondo lo storico, nel Medioevo il ruolo sottomesso della donna era rafforzato da un sistema giuridico che legittimava tale sottomissione e a sostegno di tale tesi egli parla di vere e proprie coordinate culturali della liceità. Il velo come strumento di subordinazione, quindi, diventa quello che il sociologo Angelo Pichierri definirebbe un “artefatto“, ovvero un oggetto con una valenza funzionale (nascondere) e una valenza simbolica che rimanda al ruolo che la donna riveste nel contesto sociale di riferimento.

Quando il velo indossa il femminismo

Oltre alla valenza discriminante del velo è interessante notare un altro aspetto, poco conosciuto e più “velato”, della realtà musulmana: il femminismo islamico. All’interno della comunità islamica si sono affermate alcune figure femminili che riscattano una nuova interpretazione del Corano stesso. L’antropologa Ruba Salih nei suoi saggi riporta la funzione liberatrice del velo che consente alle donne di svolgere ruoli pubblici, nascondendo il corpo per riscattare l’aspetto intellettuale. La sociologa marocchina Fatema Mernissi, invece, con uno spirito più provocatorio considera il velo islamico meno opprimente del mondo occidentale che, secondo la sociologa, detta precisi canoni di bellezza femminile legato a una società patriarcale. Troviamo, poi, un intervento sull’argomento tabù per eccellenza: la sessualità. La sessuologa egiziana Heba Kotb riferisce che nel Corano sono presenti dei passi in cui si indica la sessualità femminile come un piacere, non solo strumento di procreazione, riscattando quindi un diritto al piacere individuale. Altro risvolto femminista lo si ritrova nella figura di Malala Yousafzai, l’attivista pakistana premio Nobel per la pace che indirizza le sue battaglie sul diritto all’istruzione in Pakistan, ma che viene fortemente criticata per la sua scelta di indossare il velo, nonostante le battaglie sociali da lei portate avanti con fermezza. Insomma, il simbolo che riveste lo hijab è molto complesso e forse, non del tutto compreso. I punti di vista sono tanti, ma ciò che si evince dalle menti femministe è che molte donne islamiche hanno la volontà di riscattare il proprio ruolo sociale, anche a rischio della vita. Col tempo le trasformazioni sociali, storiche e culturali produrranno un cambiamento e quanto cambierà il rapporto delle donne con il velo, ad oggi, non ci è dato saperlo. Come sociologi potremo solo analizzarlo con l’ottica avalutativa weberiana, per non cadere nel pericolo di una valutazione non oggettiva e, a tratti, fuorviante.

Valentina Boi

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