Le grandi trasformazioni che hanno investito la società dopo la svolta neoliberista degli ultimi decenni, hanno messo in discussione il concetto originario di diritto alla città, introdotto da Henri Lefebvre nel 1968 e recentemente riformulato da David Harvey. La conformazione degli spazi influisce fortemente sull’identità, ma analogamente i processi sociali e culturali conformano gli spazi che, secondo Lefebvre, vanno rivendicati. Simmel interpretava la spazialità come attributo dei processi sociali, come una proprietà intrinseca dei fenomeni sociali, che non si danno se non spazialmente.

Nelle nostre città,  il dispiegamento di una serie di processi estremamente forti ne stanno cambiando il volto. Ciò accade per città italiane, radicate nella propria identità storica e culturale, ma non sono immuni molte realtà europee ed extraeuropee. Da una parte abbiamo processi di trasformazione veloci, per lo più legati a grandi interventi pubblici o a grandi operazioni immobiliari e finanziarie; dall’altra parte abbiamo trasformazioni che, tuttavia, possono risultare lente ma che ugualmente determinano un radicale cambiamento non solo urbanistico o territoriale, ma anche sociale e culturale. Tra le trasformazioni apparentemente più lente  troviamo i grandi processi di gentrification.

Cos’è la gentrification?

gentrification
Gentrification

La gentrification, neologismo sviluppatosi negli ultimi cinquant’anni, viene tradotto in italiano in gentrificazione ma potrebbe essere tradotta anche come “aristocratizzazione” delle città. Quel processo per cui i  decadenti quartieri operai del centro cittadino vengono recuperati attraverso un influsso di capitale privato. Alla ristrutturazione degli immobili ed alla pianificazione dell’area segue l’insediamento di un nuovo tipo di inquilini middle class, la nuova gentry appunto. Gli originari abitanti vengono “rimossi” (sia in senso lato che letterale) e destinati a zone più periferiche. La gentrification riguarda non solo i centri storici, ma anche vaste aree consolidate e fortemente caratterizzate dal punto di vista dell’identità urbana e sociale, come alcuni quartieri operai o i quartieri della prima cintura.

Dopo alcuni anni di stagnazione, lo studio del fenomeno acquisì nuova linfa, soprattutto grazie allo studio di Chris Hamnett, che lavorò sugli spostamenti della popolazione di Londra tra il 1961 e il 2001. Alla fine del periodo preso in esame, sostiene Hamnett, la classe operaia non esisteva più. Si cominciò così a vedere la gentrification come una manifestazione spaziale e sociale dalla transizione da un’economia industriale a un’economia post-industriale. In questo senso, non si parla più tanto di  delocalizzazione delle persone, ma di sostituzione.

L’effetto “trickle down”

ImmagineUna corrente di pensiero, esplicitata soprattutto nel lavoro del sociologo Peter Marcuse, ritiene che il processo di delocalizzazione si possa manifestare anche sotto il livello culturale: quando in un territorio cambiano i rapporti sociali e il tessuto urbano, organizzativo e sociale, certe zone diventano automaticamente esclusive per determinate fasce di popolazione. Vi è poi chi vede la gentrification come un processo positivo, perché genererebbe un effetto  “trickle-down”: in questo senso le abitudini e i comportamenti delle classi più abbienti o di terminati centri geografici si estenderebbero progressivamente alle classi meno abbienti e alle periferie. Le aree gentrificate vengono quindi provviste di infrastrutture commerciali all’avanguardia e la loro promozione è curata nei minimi particolari.

La cosiddetta “rinascita della città” è pubblicizzata come un evento in grado di portare benefici a tutti i suoi  abitanti indistintamente, ma la realtà è diversa. Uno sviluppo diseguale caratterizza l’andamento della città, favorendo quelle zone che possiedono, per questioni storiche e/o geografiche, un maggiore capitale culturale (quello che Bourdieu definisce come “capitale oggettivo”). I problemi legati all’identità esplodono proprio in quei contesti urbani dove “si perde l’identità”, dove le tensioni trasformative sono più forti e si traducono in conflitti accesi. Tant’è che la presenza di importanti e significativi movimenti urbani e la formazione di comitati e associazioni locali sembrano spesso, più che (o non soltanto) l’espressione di un tessuto sociale attivo, consistente e radicato in culture dinamiche e preesistenti, il segnale di quanto questo tessuto si senta minacciato e reagisca in qualche modo alle trasformazioni che sente sempre più incalzanti e inarrestabili. Ne sono esempi il quartiere San Salvario a Torino, il quartiere Isola a Milano, il rione Monti a Roma, San Berillo e il Quartiere Fiera a Catania, il Quartiere Brancaccio a Palermo.

Allo stesso tempo la questione dell’identità diventa un rischio quando viene posta in termini di conservare/salvaguardare un’identità, di politiche localistiche (che poi danno origine, estremizzando, ad atteggiamenti razzisti e che non accettano le diversità), di disegnare lo sviluppo di un territorio a partire da un’identità predefinita. Un po’ come parlare di spettacolarizzazione urbana, di cui parla Guy Debord ne “La società dello spettacolo”, dove lo spettacolo e la creazione di una ben precisa immagine collettiva, la merce come spettacolo, l’ideologia materializzata della città, sono i responsabili di questa condizione di crisi della dimensione urbana.

Anna DB

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