Secondo una delle definizioni dell’Urban Dictionary, “gli Hipster sono persone che si impegnano nel tentativo di distinguersi dal resto della società, rifiutando tutto ciò che li rende conformi alle norme. Ironicamente, questo sforzo congiunto e compiuto da molte (troppe) persone ha fatto sì che il risultato fosse però diverso, se non fallimentare rispetto alle intenzioni di partenza. Gli Hipster, infatti, sono diventati totalmente identici tra loro e neppure così differenti dal resto della società”. Chiaro, non si tratta della spiegazione più oggettiva che esista, ma in questa descrizione un po’ giudicante e sfottente qualcosa di vero c’è e riguarda proprio il risultato di quel tentativo di ribellione e distintività.
Alle origini della subcultura Hipster

Seppure la parola “Hipster” abbia avuto un’impennata incredibile nelle ricerche Google tra i primi anni 2000 e il 2010, assumendo una connotazione ironica per definire determinati modi di vestire e atteggiarsi un po’ finti e costruiti, le sue origini risalgono in realtà agli anni Trenta circa. L’etimologia non è molto chiara, anzi non è proprio noto se derivi da “hip” o “hipi” con il significato di “aprire gli occhi” o da “hop” ovvero oppio in linguaggio gergale, ma una cosa è certa: i musicisti di hot jazz e bepop di New York furono i primi ad usare “hep”, poi “Hepcats” e infine “Hipster” per identificare i loro fan, differenziandoli in questo modo dagli appassionati dell’ormai “superato” swing. Al di là di questo contorto gioco di parole, il nocciolo della questione comunque è semplice: fu proprio grazie al carattere innovativo e sperimentale del bepop che la subcultura Hipster riuscì ad esprimere il suo spirito di ribellione, dimostrando di voler uscire da un periodo complicato come quello degli anni ‘40, fatto di guerra, incertezze e segregazioni razziali.
Desideri di libertà
Il bepop, infatti, oltre ad essere un nuovo linguaggio musicale, rappresentò in quel preciso momento storico un nuovo stile, nonché una nuova forma di espressione, utilizzata prima dagli Hipster neri per contrastare la routine e le norme delle classi sociali alte e bianche e poi (per imitazione) dagli Hipster bianchi frequentatori dei locali black, in segno di rivolta nei confronti delle norme dominanti. Il risultato fu vincente e, come spesso accade alle subculture spettacolari, l’abbigliamento riuscì davvero a trasmettere le aspirazioni, il desiderio di libertà, di autodeterminazione e ribaltamento degli schemi. Con quegli abiti sfarzosi, eleganti ed oversize, la barba caprina e i cappelli grandi, gli Hipster definirono un look eccentrico, in grado infatti di sbandierare nettamente uno status sociale upper e molto ambito in un periodo difficile e contraddittorio come quello del Dopoguerra, dove da un lato tutto pareva esser stato perduto per via della violenza, della Guerra Fredda e della bomba atomica, e dall’altro tutto sembrava subire l’influenza positiva del baby boom e della via via nascente società di massa. Peccato che però ad un certo punto tale successo svanì completamente gettando gli Hipster nel dimenticatoio.
L’hipster moderno

Questa prima ondata hipsteriana non raggiunse l’Europa e anzi tale subcultura rimase pressoché nell’ombra fino ai primi anni Duemila, quando la parola Hipster tornò ad essere utilizzata frequentemente per indicare lo stile di abbigliamento di certi giovani più attenti alla cura del proprio aspetto esteriore, a dir poco inconfondibile. Montature nere e spesse, barbe folte e baffi all’insù, camicie a quadri o in fantasia, risvoltini più bretelle: ecco alcuni dei must have attribuibili allo stile Neo Hipster ormai a tutti noto. A questi elementi si deve senz’altro aggiungere la nostalgia nei confronti di un passato per lo più idealizzato e traducibile in oggetti vintage sempre pronti da sfoggiare, come le vecchie macchine analogiche Polaroid, i vinili, gli skate e i tatuaggi old school. Ma anche la passione per la musica indie, il folk, l’arte, il cinema, i social, Vice, Pitchfork, le biciclette a scatto fisso, le birre artigianali, i cibi organici a chilometri zero o autoprodotti nel proprio orto urbano.
Tra anticonformismo e omologazione

Ma che cosa ha portato gli Hipster ad autoescludersi e allo stesso tempo ad omologarsi così tanto tra loro al punto da essere addirittura ridicolizzati? Tiziano Bonini nel suo testo “Hipster” interpreta questo slancio verso il passato e i valori dei propri nonni come l’esternazione di un bisogno di autenticità, un modo per contrastare la sensazione di incertezza tipica di una generazione precaria, sempre più alienata, individualista e digitale che, non avendo altri privilegi e certezze, pensa dunque di potersi esprimere solo tramite il consumo vistoso. Un’arma a doppio taglio, in quanto gli Hipster sottoponendosi all’attenzione dell’industria della moda, dei brand dei più svariati settori e dei media in generale hanno reso vita facile al riassorbimento culturale, diventando totalmente omogenei, trendy, ai limiti della ridicolizzazione. La dimostrazione è data dalla produzione di accessori assurdi (come ad esempio le lampadine natalizie da appendere alla barba) nati apposta per accentuare, e schernire al tempo stesso, qualsiasi tentativo anticonformista, o dalle formule matematiche pensate per spiegare scientificamente la loro totale omologazione, o addirittura dalla realizzazione di “Hipster Hitler“, un fumetto digitale, che nel fare ironia contro uno dei personaggi più diabolici della storia, fa uso di una caricatura Hipster in quanto ritenuta di per sé insopportabile.
Autenticità
Eppure, come sostiene Bonini, per quanto si sfottano e si tengano distanti, gli Hipster sono un pò in ognuno di noi. “L’hipster, con la sua sola esistenza, ci sta dicendo che non siamo abbastanza anticonformisti, abbastanza innovativi, abbastanza underground. Ci fa sentire nella media. E allora disprezziamo l’hipster. E lo disprezzano anche gli hipster stessi, perché l’hipster non sopporta di essere assimilato ad altri uguali a lui. L’hipster si sente unico. Accettare di essere uguale ad altre migliaia di persone nel mondo che vestono come lui e ascoltano gli stessi dischi e parlano nello stesso modo e hanno gli stessi gusti, significa ammettere di appartenere alla massa, di non essere autentico. Significa essere come tutti. Guarire dall’hipsterismo contemporaneo significa anche accettarsi per quello che si è, ovvero persone più o meno buone i cui gusti e le cui idee sono socialmente strutturate e influenzate dalla famiglia in cui si è nati, il quartiere in cui si è cresciuti, la disponibilità economica dei propri genitori e il grado di istruzione ricevuto”. A voi il giudizio finale.
Alice Porracchio
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“If there’s not a rebellious youth culture, there’s no culture at all. It’s absolutely essential. It is the future”.