La società contemporanea è da considerarsi, nel senso attribuitole dal sociologo tedesco Ulrich Beck, quale effetto collaterale della prima modernità. Difatti la vecchia società industriale si è oramai dissolta e con essa le sue categorie di pensiero, per fare spazio a quella che egli definisce “società globale del rischio“. La causa di tale disfacimento, per Beck, è incontrovertibilmente inscritta nella modernità stessa; d’altronde, egli, non a caso, configura questa nuova tappa di organizzazione della realtà (sociale, politica, economica, culturale) decidendo di non percorrere la strada tracciata dall’approccio analitico convenzionale applicato allo studio della globalizzazione, ovvero quella della postmodernità, bensì di intraprendere il sentiero alternativo della seconda modernità o modernità riflessiva.

Un nuovo approccio

Il cambio di rotta, attuato dallo stesso Beck, sottende la convinzione secondo la quale se alle soglie del XIX secolo la modernità ha preso forma come qualcosa di antitetico rispetto a un ordine sociale-economico esogeno che la contrastava, ossia il feudalesimo, diversamente la nuova modernità, sorta a partire dalla seconda metà del secolo scorso, neutralizzatasi tale opposizione, si è ritrovata riflessivamente a fare i conti con sé stessa: con una certa idea di progresso, con la fede esasperata, dunque ingenua, dello sviluppo continuo e a raggio universale, con la crisi di rappresentanza e di identità collettive, e con il mito del controllo. Dunque, siamo di fronte ad una modernità che supera e radicalizza la “prima” e che si dispiega come pieno compimento in sé stessa.

Modernità e globalizzazione

Quest’ultima si ritrova a dover fronteggiare una serie di sfide, tra cui quella rappresentata dalla globalizzazione. Con tale espressione, solitamente, si indica un fenomeno di progressiva espansione della sfera relazionale sociale, sino al potenziale allineamento con l’intero pianeta. Nonostante sia un fenomeno che idealmente abbraccia una visione del mondo affrancata da ogni sorta di ostacolo alla libera circolazione di merci, capitali e persone, promuovendo la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del cosmo, nella prassi si riduce ad essere rilevato come mero strumento funzionale all’accumulazione capitalistica, dunque alla logica del profitto nata in seno alla modernità occidentale. Si pensi, ad esempio, al “Sistema Mondo” di cui ha parlato il sociologo ed economista statunitense Immanuel Wallerstein, il quale, già durante la Guerra Fredda, inizia a prevedere l’acuirsi della discrepanza esistente tra il Nord e il Sud del pianeta.

Centro e periferie del mondo

Tuttavia, l’economista si rifiuta di accettare come valida la nozione di terzo mondo, sostenendo, invece, l’esistenza di un unico mondo, regolato da una complessa rete di relazioni di tipo economico: il cosiddetto sistema capitalistico mondiale. Tale sistema, lungi dall’essere omogeneo dal punto di vista culturale, politico ed economico, si estrinseca quale spazio privilegiato della differenza. Difatti, esso si contraddistingue per la permamente suddivisione intercorrente tra il centro dominante, la semi-periferia e la periferia, ovvero le aree rimaste fuori dalla ricchezza mondiale.

Più specificamente, vi è una divaricazione fondamentale e istituzionalmente stabilita tra il lavoro del centro e quello della periferia: se il centro gode di un ingente sviluppo tecnologico e di prodotti di elevata fattura, i Paesi periferici sono ridotti a mere riserve di materie prime, prodotti agricoli e manodopera a basso costo, dalle quali i primi attingono. La stessa asimmetria di fondo sopravvive nei rapporti di scambio economico tra i due poli; i Paesi sottosviluppati sono costretti a vendere i loro prodotti a basso prezzo e, al contempo, a importare la merce realizzata con le proprie materie prime dal centro a prezzi comparativamente alti.

Dal conflitto di classe al conflitto tra Stati

Insomma, per Wallerstein, i rapporti conflittuali di classe, teorizzati da Karl Marx, nell’epoca della globalizzazione trovano un nuovo spazio per estrinsecarsi, al di là della tradizionale dimensione locale dello Stato-Nazione, preservandone, tuttavia, la sostanza; invero, la distinzione tra Stati centrali e Stati periferici rispecchia quella marxiana tra la classe dei dominanti (la borghesia) e quella degli sfruttati (i proletari).

Sulla scorta di quanto appena delineato, si potrebbe ragionevolmente dedurre che la globalizzazione sia da considerarsi come un prolungamento della logica espansionistica, propria dell’imperialismo del XV-XVI secolo, dunque addirittura antecedente allo sviluppo del modo di produzione capitalistico dell’ottocento. È stata proprio questa stessa conclusione quella che è sembrato trapelasse dalle parole del giovane Ahmadou, un richiedente asilo di origine ivoriana, ospitato presso il Centro di Ascolto Immigrati “Babele” della Caritas Diocesana di Avellino.ù

Costa d’Avorio, un caso esemplare

Una delle prime parole pronunciate da Ahmadou è stata “capitalisme”, riferendosi ai rapporti internazionali che vigono tra gli opulenti Stati occidentali e i cosiddetti Paesi in via di sviluppo. Subito dopo, però, ne ha fatto seguire un’altra, ovvero “colonialisme”, con l’intento di sottolineare che, nonostante una formale indipendenza concessa dall’ex potenza coloniale francese alla Costa D’avorio negli anni sessanta, quest’ultima, nella prassi, è rimasta assoggettata economicamente e, cosa evidentemente più grave, politicamente, alla “madrepatria”.

Gli ivoriani non possono gestire le loro Banche Centrali e la loro moneta, entrambe controllate dalla Banca Centrale di Parigi. Le risorse agricole e monetarie sono destinate per la maggior parte all’esportazione verso Francia ed il resto dell’Europa. I governi e i cittadini sono obbligati a pagare la tassa coloniale ancora in vigore; i comandanti dei loro eserciti rispondono al Ministero della Difesa e all’Eliseo; i presidenti devono essere scelti dall’Eliseo e non nelle urne popolari.

Ahmadou ha proseguito il suo racconto entrando nel cuore della vicenda socio-politica che lo ha spinto ad abbandonare il suo mondo culturale, affettivo, comunitario, per cercare rifugio altrove. Tutto ha avuto inizio il 19 settembre 2002, quando il presidente Laurent Gbagbo si trovava in visita ufficiale in Italia, e i vari reparti del nord del paese si ribellarono, formando una coalizione. Iniziò un lungo periodo fatto di violenza e repressione; scoppiò la guerra civile.

Lo zampino dell’Europa

Nel 2003 il governo di Gbagbo decise di firmare degli accordi di pace con i ribelli, dando luogo ad un esecutivo di unità nazionale che durò fino alle elezioni del novembre 2010. Il capo dei ribelli, Alassane Ouattara, si proclamò vincitore delle elezioni con il 54,10% dei voti. Il risultato, però, non fu riconosciuto valido dal Cosiglio Costituzionale, il quale accolse il ricorso del partito al potere, Fronte Popolare Ivoriano. Quest’ultimo apportò inconfutabili prove di frodi elettorali compiute nei territori del nord, controllati dalla forze ribelli. Il Consiglio Costituzionale sancì la vittoria di Gbagbo, con il 51,10% dei voti rivendicato dal suo partito. Tuttavia, i risultati finali non furono riconosciuti dalla Nazioni Unite e dall’Europa, a causa dell’influenza della Francia.

A questo punto, la Comunità Internazionale, capeggiata dall’ex potenza dominante francese, insieme all’ONU, incoraggiarono i ribelli a riprendere la guerra civile, gettando il Paese in un bagno di sangue. Il punto, per il giovane ivoriano, è che la Francia si è vista minacciata nei suoi interessi dalla “politica nazionalista” portata avanti dal presidente Gbagbo, il quale, nel 2011, ad Abidjian, è stato arrestato con l’accusa di aver perpretato crimini contro l’umanità. Ouattara è salito al potere, e i ribelli, molti dei quali mercenari del Burkina Faso, hanno portato avanti un violento esproprio di terre nei confronti dei contadini presenti nel Nord del Paese. In definitiva, le ragioni per le quali Ahmadou ha deciso di partire sembrerebbero essere inestricabilmente legate non solo alla storia del suo Paese, ma, soprattutto, a quella dell’Europa, dove egli sta chiedendo protezione.

Fortezza Europa, vittima dell’immigrazione o agente principale?

Al di là di tale deduzione, che rischia di apparire come una vera e propria contraddizione in termini, c’è l’itinerario esistenziale di Ahmadou, il quale potrebbe aiutarci a riflettere su un fattore caratterizzante il fenomeno migratorio considerato nella sua totalità che, troppo frequentemente, sotto il cattivo impulso di un etnocentrismo inconscio, facciamo cadere nell’oblìo, ovvero: l’immigrato, prima ancora di essere un immigrato, è sempre e comunque un emigrato. Dunque, anziché ergere a vessillo della nostra identità nazionale l’inflazionato diritto alla sicurezza, promuovendo la proliferazione di muri e steccati che dividono, sarebbe opportuno fermarsi un momento a meditare sui motivi che spingono, l’emigrato-immigrato, ad intraprendere il lungo viaggio della speranza.

Luana Colella

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