Quando si parla di sostenibilità ci si riferisce a tutti quegli aspetti e azioni quotidiane che, nel breve e nel lungo periodo e soprattutto sotto vari punti di vista, portano a migliorare l’ambiente in cui l’uomo, quale animale sociale, vive. Negli ultimi anni si è acceso sempre di più il dibattito soprattutto sulle questioni ambientali, su cosa sia giusto o sbagliato, su cosa e come migliorare o alle volte addirittura eliminare per salvaguardare l’ambiente e la vita stessa dell’uomo.

Cosa si intende per sostenibilità e quali sono le forme e/o i campi in cui essa può essere applicata?

Per sostenibilità si intende “la possibilità di portare avanti a tempo indeterminato un certo comportamento o un modello socio-economico. Questo implica un equilibrio tra il consumo di risorse e la loro rigenerazione, così come tra la produzione di inquinanti e la loro naturale eliminazione.” 

Da un punto di vista sociologico il concetto di sostenibilità può essere definito invece come “la condizione per cui la generazione presente soddisfa i suoi bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri.” Richiede la presenza contemporanea di tre aspetti, detti i 3 pilastri della sostenibilità: ambientale, sociale ed economica.

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Nell’era odierna, contemporanea e consumista, sembra esserci un maggiore interesse sulle tematiche legate al riciclo, al risparmio, al “meno spreco” di risorse. Anche se una gran maggioranza di soggetti è più vicina a queste tematiche, quanti realmente sono disposti a modificare il proprio stile di vita per mettere davvero in pratica quanto discusso?

A porsi questa domanda è stata anche Katia Lovat, dott.ssa in Marketing e Comunicazione all’Università degli Studi Cà Foscari di Venezia. Con la sua tesi di Laurea Magistrale dal titolo “La Moda Sostenibile in Italia: futuro imminente o utopia?” ha condotto un’analisi quantitativa sulla propensione all’acquisto di capi moda sostenibili tra i consumatori italiani.

Sociologicamente ha contribuito a questa analisi. Il questionario strutturato dalla dott.ssa Lovat è stato pubblicato sui canali social del quotidiano. Il campione di popolazione che ha partecipato all’analisi ha portato a dei risultati davvero importanti.

Riportiamo di seguito i punti più importanti della ricerca.

L’obiettivo della ricerca

Lo studio riguarda uno “specifico ramo del multiverso che fa a capo al concetto di sostenibilità, ovvero la moda sostenibile. Lo scopo della ricerca sarà proprio quello di capire se la società italiana è davvero pronta e orientata ad una svolta sostenibile o se semplicemente ne abbraccia l’idea ma poi nei fatti il consumismo asettico e sfrenato la fa ancora da padrone”. Affrontando da un punto di vista quantitativo la tematica, è importante capire se oggi le persone sono consapevoli del cambiamento che la moda sostenibile richiede. La presa di coscienza delle azioni che si intraprendono per cambiare dritta portano, senza dubbio, ad un cambiamento “ancora più grande, ovvero il passaggio dall’individualismo ad una responsabilità collettiva che trasla l’importanza dal “io e adesso” al “noi e domani”.

Lo scopo della ricerca è proprio questo. “Comprendere se il popolo italiano sta abbracciando attivamente il cambiamento, e dunque ci troviamo di fronte ad una platea di consumatori consapevoli, o se risponde inconsapevole a degli stimoli esterni che fanno della sostenibilità il nuovo mantra di questo decennio.

Si pone dunque l’obiettivo di delineare un quadro realistico sull’industria della moda attuale, analizzando le conseguenze provocate dal modello fast fashion e le possibili soluzioni incarnate da un approccio maggiormente sostenibile. Inoltre, presenta un’analisi empirica sulla percezione che i consumatori italiani hanno della moda sostenibile e sulla loro disponibilità a pagare per essa un premium price rispetto ai capi moda convenzionali. La ricerca si è basata sulla raccolta di dati per mezzo di un questionario e sulla loro rielaborazione seguendo opportune tecniche statistiche.”

Moda sostenibile: Il fenomeno della Fast Fashion

La moda, più di ogni altro settore, abbraccia l’obsolescenza come obiettivo primario, la Fast Fashion ha semplicemente accelerato questo meccanismo (Abrahamson, 2011). Lo storico dizionario Merriam-Webster definisce la fast fashion come «un approccio al design, alla creazione, alla vendita dell’abbigliamento che enfatizza la necessità di rendere fashion trend disponibili ai consumatori in maniera veloce ed economica».

Questo ha portato ad una rivoluzione in toto del sistema moda, in primis eliminando le cosiddette stagioni: autunno-inverno e primavera-estate. Il fatto empirico dimostra quanto affermato: se si varca la soglia di negozi (o e-commerce) quali Zara, H&M, Mango, Stradivarius ecc. si osserva come i capi di fatto cambino quasi settimanalmente, senza contare le capsule collection, collezioni speciali ed edizioni festive. Si è stimato che in media si producono cinquantadue micro-collezioni in un anno e per questo motivo gli esperti attualmente convergono su un nuovo concetto: la “super fast fashion”.

Infatti, se in origine la fast fashion è sorta per portare in tempi brevissimi i capi e le collezioni ammirate sulle passerelle delle fashion week nei negozi prêt-à-porter, oggi sembra che la moda veloce più che interpretare i trend, addirittura li anticipi, grazie anche all’aiuto dell’analisi dei big data e alle tecnologie come l’Intelligenza Artificiale, che coniuga i desideri dei consumatori con le future proposte dell’Alta Moda (Inside Marketing, 2020).

Tuttavia, alla moda veloce va annoverato un merito, la cosiddetta “democratizzazione del lusso”, infatti, oggi si può essere alla moda con budget accessibili a tutti. Un esempio eclatante è sicuramente Zara, che propone capi ispirati nelle forme, nei tessuti, nelle finiture alle collezioni di haute couture, rendendo l’Alta Moda disponibile alla grande massa. Si parla di democratizzazione in quanto la fast fashion ha scardinato quell’effetto che il sociologo Simmel aveva denominato trickle-down effect, che prevedeva che fossero le classi abbienti a determinare usi e costumi che poi, per emulazione, si diffondevano nel tempo anche tra la massa. Oggi non è più così, visto che la versione emulata dei capi di alta moda sono sul mercato quasi contemporaneamente alla loro presentazione sulle passerelle.

La corsa dei processi produttivi

Velocizzare i processi produttivi ha avuto e ha tuttora un costo notevole: i processi di controllo sono meno accurati, i tessuti meno duraturi e i lavoratori del tessile non vedono un giusto riconoscimento per il lavoro svolto. Infatti, l’utilizzo di materie prime di qualità medio-bassa permette alle catene di abbigliamento low cost di mantenere prezzi bassi. Si è stimato che in media oltre il 60% dei capi è fatto di petrolchimici e polimeri della plastica come nylon, viscosa, poliestere e che anche quando i capi sono dichiarati essere di cotone solo nell’1% dei casi si tratta di cotone organico. Senza dubbio il sistema della fast fashion è uno dei colpevoli della crisi ecologica attualmente in atto, che intacca sia l’ambiente che la salute umana.

Tale sistema infatti impone che gli abiti siano disegnati per essere economici, rapidi da produrre, con il fine di essere distribuiti, venduti e consumati in quantità sempre maggiori e in tempi sempre più brevi. Ma, un incremento così esacerbato dei consumi ha delle inevitabili conseguenze: sia sul flusso di rifiuti/scarti tessili che sull’impatto ambientale della produzione, con maggiori emissioni di inquinanti e gas serra.

Tuttavia, perché, nonostante la reputazione negativa della fast fashion, i consumatori continuano ad acquistare questa tipologia di capi? La moda istantanea ha completamente modificato le abitudini dei consumatori e le aspettative, soprattutto del prezzo, nei confronti di un capo di abbigliamento. Oggi il consumatore medio compra almeno il doppio dei vestiti rispetto agli inizi degli anni Duemila ed il loro utilizzo medio si è ridotto quasi del 40%.

In particolare, il consumatore medio di prodotti di moda veloce possiede almeno in parte le seguenti caratteristiche: acquista beni che hanno dei prezzi convenienti nonostante una qualità modesta, se non bassa, del prodotto acquisito; utilizza i beni acquistati per un breve periodo; visita i negozi di moda fast fashion frequentemente; tende a pagare il prezzo pieno delle merci piuttosto che aspettare i saldi o altre svalutazioni del prezzo del prodotto; segue intensamente le tendenze della moda tramite canali tradizionali (stampa, televisione ecc.) e social media; ha una tendenza al consumo edonico e all’acquisto d’impulso.

La disponibilità di capi moda a buon mercato confonde il comportamento razionale dei consumatori, impedendo loro di investire in una migliore qualità e nella sostenibilità (Pedersen & Neergaard 2006). E sicuramente, oggi, l’acquisto di prodotti fast fashion è ancora quello che la massa predilige, anche se un nuovo profilo di consumatore sta pian piano emergendo, soprattutto tra le generazioni più giovani.

L’impatto ambientale dell’industria della moda.

Nonostante da anni si parli dell’alto impatto che l’industria della moda ha a livello ambientale, il settore è in continua crescita, almeno dalle analisi a disposizione pre Covid-19. L’impatto ambientale che l’industria della moda sta provocando negli ultimi anni è giunto ad uno stadio critico. Si è stimato infatti che tale industria produca tra l’8-10% delle emissioni globali di CO2, ovvero tra i 4-5 miliardi di tonnellate all’anno (United Nations Climate Change, 2018).

Inoltre la Fashion Industry è la maggior consumatrice d’acqua con 79 trilioni utilizzati all’anno contribuendo a circa il 35% dell’inquinamento degli oceani causato dalle microplastiche e producendo un enorme ammontare di rifiuti tessili (più di 92 milioni di tonnellate all’anno) molti dei quali vengono gettati in discariche o bruciati, anche quelli non venduti.

moda sostenibile e impatto ambientale

Il crescente impatto ambientale (e la conseguente consapevolezza) può essere attribuita al sostanziale aumento del consumo di vestiario, e quindi all’aumento della produzione tessile. Difatti, la produzione globale pro-capite è aumentata da 5,9 kg a 13 kg all’anno nel periodo che va dal 1975 al 2018 (Peters, et al., 2019). Similmente, si stima che l’attuale consumo di vestiario sia di circa 62 milioni di tonnellate all’anno e che raggiungerà i 102 milioni di tonnellate entro il 2030. Dunque, i brand della moda oggi stanno producendo quasi una quantità di abiti doppia rispetto a quella dell’anno 2000.

Il costo della moda sostenibile.

Il costo finale di un capo di abbigliamento si ottiene computando una serie di fattori: ricerca e sviluppo del prodotto, materie prime, lavorazione, finiture, confezionamento, costo del personale, costo di trasporto, packaging e la gestione del brand attraverso il marketing.

Ora, quando nei negozi si trovano t-shirt a meno di 10,00 € e Jeans a meno di 20,00 € la domanda che dovrebbe sorgere spontanea è: come possono costare così poco? Si ricorda che all’interno di quei 10 e 20 € vi è anche il guadagno del retailer che vende i capi e i costi sostenuti da quest’ultimo per mantenere il negozio fisico. Il fatto è che l’avvento della Fast Fashion ha reso questi prezzi consueti ed ha abituato i consumatori a potersi permettere capi di qualità discreta, sempre alla moda a prezzi veramente irrisori.

Rimane fondamentale porsi un quesito: com’è possibile che i prezzi siano così bassi? Per rispondere a questa domanda si utilizza un approccio inverso, ovvero si mostrano i motivi per cui il prezzo della moda sostenibile è superiore a quello capi moda convenzionali, per poi lasciar giudicare al lettore se il prezzo della moda sostenibile è realmente elevato o se, al contrario, è troppo basso quello proposto dalle catene della fast fashion.

offerte moda sostenibile

Sono stati individuati sei principali motivi che giustificano il prezzo più elevato della moda sostenibile: la maggiore qualità e durabilità dei capi moda sostenibili implica dei costi maggiori di produzione; l’assenza di economie di scala; un costo del lavoro più elevato per garantirne l’eticità; la maggior quantità di tempo e competenze impiegate nella produzione; il costo più elevato di tessuti organici e certificati; il maggior costo dei materiali alternativi e riciclati

Moda sostenibile: i dati del questionario.

Al sondaggio hanno partecipato complessivamente 1511 individui; il campione è stato tuttavia depurato eliminando le unità statistiche minorenni e tutti coloro che non hanno dato delle risposte non consone alle domande poste. Il campione oggetto di studio è pertanto composto da 1479 unità statistiche, di cui 1252 donne (84,7%) 223 uomini (15%) e 4 “altro” (0,3%), dove per “altro” si intende coloro che non si identificano nella definizione binaria di sessualità. Dal quadro appena esposto è chiaro che il campione è molto distorto rispetto alla variabile “genere” visto che c’è un’assoluta maggioranza di donne, risultato in linea con le aspettative visto la tematica affrontata.

Visto tale distorsione verso il genere femminile La variabile del sesso non sarà mai considerata per alcun tipo di analisi descrittiva. Per quanto concerne l’età del campione, i rispondenti hanno delle età comprese tra i 18 e gli 80 anni compiuti, con un’età media di 36 anni e deviazione standard pari a 15. Le fasce di età sono state così suddivise per perseguire la distinzione sociologica delle generazioni in Baby Boomers, Generazione X, Generazione Y e Generazione Z.

Tale suddivisione ci permette infatti di costruire un profilo generico degli individui sulla base della loro età anagrafica, visto che l’essere nati in un determinato periodo storico implica assorbirne gli eventi che lo hanno caratterizzato, dalla cultura alla politica e non ultima la tecnologia. Alla domanda filtro “Lei acquista capi moda” l’80% delle unità statistiche ha risposto “Si” mentre il 20% ha risposto “No”.

Alla domanda filtro “Lei acquista capi moda sostenibili?” 705 individui hanno risposto “Si”, ovvero il 60% di coloro che hanno dichiarato di acquistare capi moda, mentre 477 individui hanno dichiarato di non acquistare ancora capi moda sostenibili (40%). Allo stato attuale l’industria della moda provoca dall’8 al 10% di emissioni di CO2 a livello mondiale ed è il settore che consuma la maggior parte delle risorse idriche, con ben 79 trilioni di litri d’acqua consumati annualmente.

Il consumo smodato, impulsivo “usa e getta” sta contribuendo alla distruzione del nostro pianeta, basti pensare che in questi ultimi vent’anni la produzione di capi moda è raddoppiata e che dal 1996 al 2012 la quantità di capi acquistata solo in Europa è aumentata del 40%, complice l’avvento del fast fashion business model. Tale sistema ha sicuramente avuto il merito di rendere la moda a portata di tutti, ma ha anche completamente deresponsabilizzato gli acquisti da parte dei consumatori.

Inoltre, la delocalizzazione della supply chain in quelle parti del mondo in cui la legislazione è meno rigida ha creato un ulteriore sbilanciamento: da una parte complicando l’esistenza sul mercato a quelle aziende che hanno scelto di mantenere la produzione nei paesi maggiormente normati, che sono divenute meno competitive, e dall’altra contribuendo ad aumentare l’inquinamento nei paesi in via di sviluppo, dove, tra l’altro, i lavoratori non sono tutelati e percepiscono salari irrisori.

I motivi per cui la moda veloce ha preso il sopravvento nei paesi occidentali hanno delle cause economiche, sociologiche e psicologiche che devono essere tenute in considerazione: infatti, il consumatore è al contempo carnefice e vittima del sistema.

Da un punto di vista economico, questa sembra essere una delle conseguenze dell’eccessiva liberalizzazione che ha avuto inizio a partire dagli anni Ottanta e che ha contribuito al depauperamento della classe media occidentale. La sempre maggiore precarietà del lavoro ed i salari inadeguati al costo della vita inevitabilmente hanno portato le persone ad acquistare abbigliamento che costa meno, senza tenere troppo in considerazione le ragioni per cui il prezzo è così diminuito. Da un punto di vista psicologico e sociale, il sostanziale annichilimento dei valori tradizionali e lo scarso contatto con il proprio desiderio interiore hanno portato l’individuo a vivere un senso di vuoto che cerca in di colmare con il consumo compulsivo di oggetti.

Molti preferirebbero la moda sostenibile

Dai dati emersi dal questionario si evince che la maggior parte del campione si è detto favorevole alla moda sostenibile. Il fatto è che disposto a pagarla solo dal 10 al 25% in più rispetto a quella convenzionale. Ora, tutto dipende dall’interpretazione che è stata data dai rispondenti a questo termine “convenzionale”. Perché è chiaro che se per convenzionale hanno inteso le proposte fatte dalle catene della fast fashion, che oggi hanno monopolizzato i consumi di massa, una percentuale dal 10 al 25% in più non coprirà mai i costi che le aziende di moda sostenibile devono sostenere per produrre un capo.

Quindi, quello che è possibile affermare dai dati raccolti, è che in generale gli individui sono interessati al problema e sono alla ricerca di una moda più sostenibile ma non sono ancora pronti a compiere lo sforzo economico che essa richiederebbe.

Inoltre, dal campione è emerso chiaramente uno scarso contatto con le soluzioni offerte dall’economia circolare, come l’acquisto di capi usati e la condivisione di capi moda, visto che ben l’81% degli intervistati ha dichiarato di non recarsi mai o quasi mai in negozi dell’usato. Da qui emerge ancora un profondo stigma sociale legato all’acquisto di abbigliamento usato, retaggio della cultura del possesso borghese. I principali risultati della ricerca hanno fatto emergere l’estrema rilevanza che gli individui prestano all’estetica dei capi di abbigliamento e un’importanza solo marginale del marchio, che passa in secondo piano rispetto al prodotto offerto.

Ecco il Clothes Swap: la nuova frontiera dell’usato sostenibile
Ecco il Clothes Swap: la nuova frontiera dell’usato sostenibile

La maggior parte dei soggetti identifica nel concetto di sostenibilità dei processi produttivi poco inquinanti ed una maggiore eticità, legata al non sfruttamento dei lavoratori che realizzano i capi, tuttavia è emerso un sostanziale distacco concettuale tra moda sostenibile ed economia circolare. Infatti, i consumatori pur riconoscendo come sostenibili le pratiche circolari di condivisione dei capi o acquisto di moda usata non ritengono che esse siano così pertinenti al concetto di moda sostenibile. Questo è sicuramente un punto di partenza interessante che richiede una nuova educazione al consumo, da parte soprattutto delle istituzioni che hanno il compito di garantire il benessere sociale e di favorire il cambiamento verso una maggiore circolarità delle risorse.

Dall’analisi è inoltre emerso che coloro che si dimostrano cinici verso la moda sostenibile lo sono in particolare perché non riescono a comprendere da cosa dipenda l’elevato prezzo di sell-out dei capi sostenibili e a tal proposito sarebbe opportuno intervenire dimostrando una maggior trasparenza, rendendo chiare ed accessibili le fonti dei costi che un’azienda sostenibile deve sostenere. Di fatto la moda sostenibile non è cara, ma sono i prodotti della fast fashion Industry ad avere dei prezzi troppo bassi, che derivano non da una gestione efficiente ma da un modello di business incentrato sullo sfruttamento asettico di risorse umane ed ambientali, che riducono, forse, i costi aziendali accumulando un enorme debito verso il nostro pianeta. Infine, dal Choice Experiment è emerso che il campione ha nettamente preferito le alternative che contenevano i livelli “Luogo di produzione Italia” ed “Informazioni sull’etichetta 250 complete”.

Per quanto concerne il materiale utilizzato, i capi realizzati in fibre naturali sono stati quelli maggiormente selezionati all’interno dell’esperimento di scelta, seguiti dai materiali riciclati e poi da quelli sintetici. Stimando la MWTP per questi ultimi livelli si è osservato che il cluster composto da soggetti di età inferiore ai 45 anni, che ancora non comprano capi moda sostenibili, sono disposti a pagare 27,47 € in più per un capo moda realizzato con fibre naturali rispetto che con materiali riciclati. Tuttavia, la MWTP per il livello “materiale utilizzato naturale” scende a 14,26 € per il cluster degli over 45 e diminuisce ulteriormente a 10,51€ per il gruppo di intervistati che ha dichiarato di acquistare già moda sostenibile.

Queste differenti stime dipendono dal diverso approccio con cui i cluster individuati affrontano il tema della sostenibilità: infatti, coloro che già acquistano moda sostenibile sono maggiormente consapevoli del fatto che il materiale naturale non è sostenibile quanto il materiale riciclato e pertanto attribuiscono un minor valore ai filati naturali. Gli over 45 sono invece, in generale, meno sensibili al fenomeno sostenibilità e pertanto quando acquistano prestano attenzione ad altri aspetti. In conclusione, nei prossimi anni la domanda di moda sostenibile è destinata ad aumentare visto che sono proprio i più giovani ad esserne i maggiori sostenitori.

L’Industria della moda dovrà quindi adottare degli approcci reattivi e proattivi, ovvero ridurre la quantità di scarti e sprechi sfruttando già quanto è presente nel sistema moda, migliorando le tecniche di riciclo dei tessuti ed evitando inutili sovrapproduzioni.

Il fast fashion business model aveva come principale obiettivo l’abbattimento dei costi, ma non ha tenuto conto dell’aumento del più importante: l’inquinamento. L’inquinamento, secondo l’economista Michael Porter, è infatti una forma di spreco economico visto che le emissioni sono un segnale di inefficienza che impongono ad un’organizzazione il compimento di attività che non generano valore quali lo stoccaggio, la gestione e lo smaltimento dei rifiuti. Un uso più efficiente delle risorse potrebbe ridurre questi costi, salvaguardando non solo il conto economico delle imprese ma il futuro della nostra società.

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