Abusato e banalizzato come pochi altri, “La società dello spettacolo” è un testo del 1967 scritto dal filosofo francese Guy Debord. Pur essendo più vicino alla filosofia sociale che alla ricerca sociologica, l’opera ha avuto, e ha ancora, profonde implicazioni per la disciplina
votata alla comprensione della nostra società.

Media, religione, Stato

La società dello spettacolo” è considerato da molti come un libro cult, un testo profetico che, appena agli albori dell’era televisiva, è riuscito a cogliere la pervasività dei mass media e a predire quel dominio delle immagini mediatiche sulla realtà che solo oggi risulta così evidente in ogni aspetto della nostra vita, sempre più tendente alle virtù dell’apparire che dell’essere. Ciò, pur essendo vero, non è che l’aspetto più palese, superficiale e recente di ciò che Debord chiama “spettacolo” e che si presenta piuttosto come il compimento assoluto di un atavico percorso sociale verso l’alienazione . Quest’ultimo concetto, elaborato dalla filosofia (post) hegeliana e già introdotto nella riflessione sociologica da Karl Marx, viene portato da Debord su un nuovo livello, che non è più esclusivamente quello del lavoro e della produzione economica, bensì del consumo e, più in generale, delle rappresentazioni. Sono queste ultime, intese in un senso assai più ampio rispetto alla ristretta accezione artistica o mediatica, a costituire il vero oggetto di interesse del filosofo francese e a fornire la chiave di lettura della sua opera. Debord, infatti, sostiene che ogni aspetto della vita sociale abbia acquisito il carattere “separato” tipico degli spettacoli in senso stretto, quelli in cui si può nettamente distinguere il palco dalla platea, i performer dal pubblico, l’attività della rappresentazione dalla passività della ricezione. Così, sulla scia dei giovani hegeliani e di Feuerbach in particolare, il filosofo francese ritiene che già nel fenomeno religioso si possano individuare le caratteristiche di uno spettacolo in cui la divinità altro non è che la proiezione celeste di ciò che l’Uomo potrebbe fare sulla Terra. Allo stesso modo, rielaborando la visione di Moses Hess e Karl Marx, Debord vede nelle ideologie, nei capi politici e nelle istituzioni dello Stato l’immagine “delegata” di ciò che la comunità potrebbe realizzare nel suo insieme. La perdita conseguente a queste separazioni verso cui l’umanità tende, sono tuttavia mitigate dalla capacità che la rappresentazione spettacolare ha di ricomporre e restituire un’unità fittizia ed apparente sul piano dell’immagine. Ad ogni modo, se “La società dello spettacolo” non avesse altro da dire, il testo sarebbe una semplice rielaborazione della filosofia post-hegeliana impreziosita da un’acuta metafora sullo spettacolo. Per comprendere il dirompente valore sociologico dell’opera di Debord occorre guardare alla sua contemporaneità.

La merce e la sopravvivenza aumentata

In Francia come in Italia, gli anni ‘60 conobbero un boom economico senza precedenti, così intenso da apportare una ristrutturazione pressoché totale della vita quotidiana che, grazie alla massificazione dei mezzi di trasporto e degli elettrodomestici, venne apparentemente arricchita di molte possibilità e liberata da altrettante fatiche. È in questo contesto che “La società dello spettacolo” irrompe con tutta la sua forza: attingendo nuovamente dalla tradizione marxista, Debord osserva come il campo d’azione del feticismo della merce non sia più la produzione degli operai bensì il consumo delle masse. È nel consumo, infatti, che l’alienazione si compie definitivamente con la restituzione, fittizia poiché mediata dal mercato e dal denaro, del prodotto del lavoro precedentemente sottratto al lavoratore. Anche nella merce e nel suo consumo, dunque, Debord rintraccia rintraccia quella dinamica tipicamente spettacolare per cui il pubblico, seppur privato di ciò che gli spetta di diritto, si accontenta di una semplice immagine che gli viene restituita. A corollario di ciò, si trovano poi altri due aspetti essenziali ed innovativi dell’analisi debordiana: la caduta tendenziale del valore d’uso e la sopravvivenza aumentata. Manipolando la famosa intuizione marxiana sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, Debord osserva come l’incessante e tautologico sistema spettacolare risulti ora nell’insensata produzione di merci sempre più estetizzate, futili, immateriali e, in altre parole, orientate al valore di scambio più che al valore d’uso. Pur essendo riuscita a soddisfare i bisogni essenziali di un’ampia parte della sua popolazione, la società dello spettacolo continua a perpetrare uno sforzo collettivo immane per partecipare ad un sistema economico fine a se stesso, inconscio e che “non cessa di contenere la privazione”. Ecco allora che il problema della sopravvivenza, sebbene risolto nel suo aspetto biologico, si ripropone su un livello aumentato, quello sociale. In questo senso, l’opera di Debord diventa molto più che una semplice condanna alla società mediatica dell’apparire in cui lo spettacolo diventa merce: piuttosto, si tratta di una feroce critica della società in cui la merce stessa è uno spettacolo.

Eredità

La società dello spettacolo” è un testo estremamente coinvolgente, anche per via dello stile passionale e quasi aforistico che caratterizza le 221 tesi in cui si articola, ma tuttavia molto complesso vista la mole di argomenti declinati. Media, religione, Stato e merce non sono che alcuni tra i tanti temi affrontati dall’opera, tra i quali spiccano anche l’analisi storica che Debord riserva alla lotta di classe, al socialismo reale, alla cultura, alla temporalità dello spettacolo e al modo in cui esso organizza gli spazi. La vastità e la profondità dell’opera di Debord è tale da non risultare semplicemente in un’originale rielaborazione della critica marxista a cui si ispira, ma anche nell’aver inaugurato una riflessione che darà nuova linfa alla sociologia visuale e a quella dei consumi, dei media, della vita quotidiana e della comunicazione, ispirando l’opera di numerosi autori come, tra gli altri, Michel De Certeau e Jean Baudrillard.

Stefano Oricchio

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