Quando si legge di club culture è facile imbattersi nell’espressione “Lose yourself and let the rhythm take control” usata dalla sociologa Sarah Thornton. Eppure, per quanto evocative, queste parole non bastano a descrivere la filosofia di vita dei clubber, perché per questo movimento il ritmo non è solo un battito che guida l’evasione dalla quotidianità, ma anche il cuore pulsante di una vera e propria famiglia, accomunata dagli stessi gusti, interessi e passioni.
La nascita della musica registrata
Quando agli inizi del Novecento nacque la musica registrata su disco, non fu affatto facile farla accettare come una nuova forma di intrattenimento, soprattutto per i musicisti che sentivano minacciata la loro arte e professione. Così fino agli anni Trenta la musica registrata restò marginale nell’intrattenimento fuori casa e fu per lo più utilizzata nelle scuole da ballo o nei cinema, come sottofondo dei film muti, oppure nei pub e ristoranti. Poi tra gli anni Cinquanta e Sessanta qualcosa cambiò radicalmente, al punto che perfino il sindacato dei musicisti inglese si fece promotore di campagne propagandistiche sempre più feroci contro i dischi per ottenere una regolamentazione più restrittiva del loro utilizzo. Un utilizzo che però continuò a diffondersi, tant’è che negli anni Settanta i dischi diventarono i protagonisti dei venerdì e sabato sera nei locali da ballo dove, se precedentemente venivano utilizzati soprattutto nelle pause tra un pezzo e l’altro suonati dall’orchestra, progressivamente si sostituirono alla musica dal vivo. E fu così che dalla metà degli anni Ottanta i DJ si trasformarono nella principale attrazione della serata, mentre la musica dal vivo venne circoscritta alle giornate per le quali si prevedeva una minore affluenza di pubblico. Un passaggio che avvenne peraltro in stretto legame con l’evoluzione musicale di quegli anni.
La musica elettronica
Le prime riflessioni attorno alla possibilità di una musica “elettrica” avvennero tra il XIX e il XX secolo, quando ebbero origine le prime innovazioni tecnologiche. L’invenzione di strumenti elettrici tra gli anni Venti e Trenta quali il fonografo, il grammofono, il dinamofono e il theremin diedero senz’altro un enorme contribuito al superamento dei limiti della musica strumentale classica. Ma gli anni che segnarono maggiormente un divario rispetto ai lavori precedenti furono quelli del Dopoguerra, periodo in cui furono avviate le prime ricerche in studi radiofonici e fonologici. In particolare in Francia e in Germania nacquero due correnti di studio avanguardiste, opposte e determinanti: a Parigi grazie ai compositori Schaeffer, Poullin, Henry, Boulez e Moles ebbe origine la Musique Concrète, un genere fatto di suoni e rumori materiali uniti a musiche astratte; a Colonia con i musicisti Meyer–Eppler, Beyer, Eimert nacque il concetto di “elettronica pura”, non più originata a partire da elementi sonori preesistenti, ma da scomposizioni matematiche dei suoni.
Nuovi mondi di suoni
Personalità di spicco del filone di pensiero tedesco fu senz’altro quella di Karlheinz Stockhausen, il compositore che ebbe la capacità di attuare la “liberazione dalla dittatura del materiale“, una liberazione che spinse di continuo la ricerca verso nuovi mondi di suoni, avvicinando sempre più i giovani alle nuove apparecchiature grazie alla sua musica diffusa in tutto il mondo. Poi negli anni Settanta, suggestionati dalle composizioni di Stockhausen e dei pionieri della musica elettronica, nacquero i Kraftwerk, il primo gruppo ad aver reso popolare questo nuovo genere. Dal tedesco «centrale elettrica», i Kraftwerk si concentrarono sempre su ritmi e suoni minimali, su iconografie futuriste e su metamorfosi robotiche e disumanizzate. A partire dalla disco music e dalla loro creatività, dagli anni Ottanta ebbero così origine due dei più importanti generi musicali elettronici: la house e la techno.
Una nuova era: la musica house
La musica house nacque a Chicago in un locale noto come Warehouse, dalla cui abbreviazione venne dato il nome al nuovo sound della città. DJ resident del club, Frankie Knuckles fu il cosiddetto «Godfather of House»: con l’obiettivo di stupire il proprio pubblico e cominciando a proporre mix e riedit di vecchi dischi integrati di elementi e ritmi nuovi e coinvolgenti, le sue intuizioni crearono letteralmente una nuova era della musica. “House” in quegli anni significava essere alla moda e si riferiva al clima familiare e quasi casalingo delle feste realizzate al Warehouse, diventò insomma uno stile di vita. Malgrado il carattere innovativo del genere musicale, la house e il suo club di riferimento non vennero accolti subito dal grande pubblico, soprattutto perché considerati esclusivamente roba per omosessuali. Solo in un secondo momento, quando lo stile iniziò a diffondersi e il Warehouse restò l’unico locale aperto fino all’alba, anche gli eterosessuali e i giovani della “società mainstream” iniziarono a frequentarlo assiduamente, facendone perdere le connotazioni originarie più underground.
La musica “non umanista”: ecco la techno
Intanto anche a Detroit si stavano creando le premesse per la nascita di un nuovo genere, più freddo, geometrico e tecnologico. La musica techno ebbe origine nella cosiddetta «Motor City» degli Stati Uniti, la città in cui Ford, General Motors e Chrysler investirono e riscossero successi con le loro catene di montaggio. Negli anni Ottanta, con il decentramento produttivo, la crisi economica e la dilagante meccanizzazione, gran parte delle fabbriche chiusero e il centro della Motown si trasformò in un agglomerato di capannoni dismessi e case abbandonate. In quel clima post–industriale l’unica forza in grado di riprodurre il rumore macchinoso delle officine fu così proprio la musica techno. A metà degli anni Ottanta Atkins, May e Saunderson, tre giovani di colore del quartiere abbandonato di Belleville, iniziarono a sentire le trasmissioni radiofoniche di Elecrtifying Moyo, un DJ divenuto famoso per le sue selezioni musicali anticonformiste, e a leggere le teorie futuriste di Toffler, noto teorizzatore del concetto di «techno rebel». Convinti della possibilità di “abbracciare le tecnologie per farsi portatori di nuove forme di civilizzazione” divenendo “i ribelli neri della città dei motori“, i tre di Belleville iniziarono a produrre quel genere che avrebbe fatto confluire due anime paradossali in un’unica filosofia: creare una musica tecnologica “non umanista” per esser ballata da corpi umani. Atkins, May e Saunderson negli anni Novanta raggiunsero così il successo e la techno divenne la musica di riferimento della club culture. In quegli stessi anni per opera di Jeff Mills e di Mad Mike Banks nacque un gruppo chiamato “Underground Resistance”, un progetto volto a difendere la cosiddetta “blackness” e a incarnare i principi dell“afrofuturismo”, inteso quale insieme di culture metropolitane di colore dediti alle arti.
Questi sono ovviamente soltanto alcuni elementi della ben più ampia storia della musica elettronica, protagonista insieme ai clubber e ai DJ della club culture. Ma che cosa distingue i clubber dalla società mainstream? Che cosa ne fa di loro una subcultura ancora attuale?
Alice Porracchio
“If there’s not a rebellious youth culture, there’s no culture at all. It’s absolutely essential. It is the future”.