La contemporaneità è accertata come una fase storica problematica, di transizione, non più definibile con le classiche tassonomie che hanno caratterizzato lo studio delle società fin dai suoi albori. Ancor di più, dopo la pandemia da covid-19, le incertezze hanno condizionato le ripartenze. Tra i settori che hanno subìto gravi danni dagli stop governativi c’è quello museale. I grandi musei sono riusciti – con fatica – a restare a galla… ma quelli più piccoli? i privati?. Esistono anche realtà molto particolari che rappresentano un patrimonio importante per il nostro paese: i musei etnografici. Come hanno affrontato questo periodo?

Il museo etnografico. Definizione e nuove prospettive virtuali

È in questo contesto che si muove il museo etnografico contemporaneo: esattamente come le altre forme di istituzioni culturali, esso si trova ad affrontare i nuovi processi digitali per l’educazione e la preservazione del patrimonio culturale. Il ruolo di questa tipologia di istituzione sta mutando negli ultimi tempi, e la pandemia che ha colpito il mondo nel duemilaventi, oltre che a mettere a dura prova tutto il settore relativo al turismo e alla cultura, ha creato delle interessanti occasioni di riflessione. Alcuni musei hanno chiuso non in via temporanea o comunque sono stati costretti a mettere in cassa integrazione i propri lavoratori. Tuttavia per scongiurare conseguenze nefaste e/o rimettersi in carreggiata bisogna ripensarsi nella contemporaneità.

Per chiarire, non si tratta solo di un lavoro di marketing e re-branding, ma una ri-scoperta del valore sociale del museo. Secondo lo studioso francese George Henri Rivière (2005) infatti, il museo etnografico è uno specchio in cui una comunità può riconoscersi leggendo la propria origine, la propria identità. Riscoprendo i valori del passato è possibile ragionare sul proprio futuro e attraverso il museo etnografico si possono comprendere i problemi e strutturare politiche per l’avvenire di una o più comunità.

D’altronde la stessa etimologia del termine etnografia (ethnos, popolo + grapho, scrittura) giustifica in parte l’importanza del museo etnografico come luogo della memoria ma, nei contesti di rete e grazie ai nuovi stili di comunicazione visiva, si pone anche come centro di organizzazione rizomatica [1] (Guattari, Deleuze, 2017). Detto in altri termini, il museo non sarebbe più qualificabile esclusivamente con la definizione introdotta nel 1607 quando venne menzionato per la prima volta per designare una collezione di resoconti ma, etnograficamente parlando, si tratta di luoghi che hanno il compito di raccogliere, conservare e valorizzare le testimonianze antropologiche del territorio che rappresenta, creando in tal modo un centro di cultura prezioso per la comunità ma anche un centro di ricerca inserito in una rete capillare di diffusione della conoscenza.


[1] Il concetto di rizoma è stato utilizzato già nel passato, almeno a partire dagli anni sessanta, su elaborazioni filosofiche post-moderne come quelle di Félix Guattari e Gilles Deleuze, che sono stati tra i primi a utilizzare il termine “rizoma” per caratterizzare fenomeni non biologici ma sociologico-organizzativi. l’evoluzione delle infrastrutture di comunicazione, che ormai sono pervasive e richiedono per collegarsi solo un atto di volontà, e di quello che ci viene costruito sopra (standard di descrizione dei dati, protocolli p2p, web services, SOA), consente di pensare l’interoperabilità tra soggetti economici, come le aziende, come un processo dinamico, non fissato una volta per tutte. Una specie di rete dinamica: nel caso del presente lavoro, il museo come archivio condiviso.


Ma cosa differenzia un museo antropologico-etnografico dagli altri?

Innanzitutto dal tipo di patrimonio che va a curare. Una definizione sintetica e condivisa dei beni demoetnoantropologici non è allo stato attuale disponibile. Tuttavia l’aggettivo “demoetnoantropologico”, con il suo acronimo “DEA”, fa ormai parte del linguaggio normalizzato in uso tanto in ambito universitario quanto nelle istituzioni dei beni culturali. È tuttavia importante ricordare un passaggio fondamentale: nel 2007 l’Associazione Italiana per la Scienze EtnoAntropologiche (AISEA) e la Società Italiana per la Museografia e i Beni Demo-Etno-Antropologici (SIMBDEA) hanno concordemente prodotto una definizione di beni DEA in forma di breve testo, la cui funzione avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni dei firmatari, quella di rendere maggiormente comprensibili all’allora Ministero per i beni e le attività culturali quei beni che, nonostante il riconoscimento, non riuscivano a venire presi nella piena considerazione ai fini degli organici, dei concorsi ecc. Nel suddetto documento viene presentata questa iniziale definizione:

«si riconoscono come “beni demoetnoantropologici” tutti quei prodotti culturali, materiali e immateriali, che non appartengono alla “tradizione euroccidentale culta” dominante e attengono ai gruppi sociali portatori di “tradizioni” localizzate, socializzate e condivise presenti nei diversi contesti europei ed extra-europei. Tali attività e prodotti, nei quali si riconoscono le tracce specifiche, tangibili, simboliche e identitarie delle differenti culture, testimoniano delle alterità culturali passate e attuali, osservate in modo sincrono attraverso il rilevamento sul campo. I beni DEA si riflettono, da un lato nelle collezioni museali storiche di carattere nazionale (italiane, europee, extra-europee), dall’altro lato nei musei locali, nelle documentazioni conservate presso gli archivi audio-visivi e soprattutto sul territorio, dove essi appaiono come parte integrante della vita stessa delle comunità che li esprimono e li producono. Nel loro complesso, i beni DEA riguardano una molteplicità di attività e prodotti materiali mobili e immobili (abitazioni e arredi, abbigliamento, attrezzi da lavoro, mezzi di trasporto e di comunicazione, oggetti d’uso comune e rituale, strumenti musicali ecc.) e immateriali (cerimonie, riti, feste sacre e profane, musiche e canti, danze, poesie, fiabe, miti e leggende, proverbi, giochi, memorie, storie di vita, dialetti e parlate, saperi, pratiche ecc.)» (R. Tucci, 2015, p.3).

I beni DEA

Per i beni DEA di tradizione popolare si pone dunque con forza il problema preliminare del loro riconoscimento, della loro individuazione entro il complesso dei tratti della cultura. Lo studio – tipico del territorio e dell’etnografia italiana – del lavoro contadino e dei mestieri preindustriali che parte dalla raccolta di utensili e attrezzature non è soltanto un’acquisizione di carattere scientifico ma una risorsa di memoria e di constatazione dei movimenti socio-culturali sul territorio. La tutela di questi beni consisterebbe quindi, seguendo questa prospettiva, nel renderli disponibili per la fruizione comunitaria: appetibili dal punto di vista multiculturale e intergenerazionale attraverso la loro resa di “oggetti di comunicazione” (Bravo, Tucci, 2006).

Per fare questa tipologia di attività è necessaria una conoscenza non solo del patrimonio culturale ma soprattutto di uno sguardo antropologico. In particolare, avendo presente i nuovi scenari digitali, è parso utile ragionare seguendo i dettami dell’antropologia e l’etnografia visuale, o meglio, post-visuale (Marano, 2013): un etnografia sperimentale, multimediale, interattiva, tridimensionale, basata su un approccio ecologico, emplaced ed entangled (Casey, 1996; Howes, 2005; Ingold, 2008).

I musei etnografici e il rapporto con il digitale.

Sono passati molti anni e il museo etnografico ha subìto delle variazioni, non sempre immediatamente percettibili. In ogni caso, la funzione di preservazione dei reperti in archivi e teche è rimasta il fulcro dello sviluppo delle collezioni ma imperante è stata l’esigenza di comunicare questo patrimonio di conoscenze. Proprio secondo il consiglio internazionale dei musei (ICOM) la vocazione di queste istituzioni culturali è quella di aprirsi al pubblico e comunicare, oltre che acquisire, conservare ed esporre il patrimonio dell’umanità. Con l’avvento della società digitale le esperienze relative al patrimonio culturale sono passate dall’incontro estemporaneo all’interazione continuativa.

Oggi infatti, lo sguardo volge oltre, verso la progettazione di piattaforme che consentano dialoghi pluri-direzionali, creazione di conte­nuti multi-utente, attività collaborative e pratiche di apprendimento social (Chirchiano, 2020). Detto in altri termini, i “nuovi media” aiutano le collezioni a essere percepite. Aiutano la didattica di comunità e non solo: la estende, dipanando i suoi confini, rendendo il rapporto istituzione-utente potenzialmente glocal (Manovich, 2011). I nuovi media digitali della rappresentazione contribuiscono a modificare il concetto di materialità trasformando la classica distinzione di spazio-tempo e favorendo un mix sincretico di ubiquitime, ovvero di “spazitempi” non lineari vissuti nelle esperienze quotidiane (Canevacci, 2017).

Tuttavia, la dissoluzione di ogni senso del vicino e del lontano in relazione all’oggetto dissocia anche la spazialità relativa al sé. Se l’esperienza e l’interpretazione del patrimonio culturale è, come sostiene Tilden (1957) l’esperienza di ciò che ci lega e ci appartiene è vero anche che si tratta di un incontro con ciò che ci separa.

Ripensare e (valorizzare) la tradizione

La momentanea “perdita del senso del luogo” che può comportare un massiccio – o comunque un maldestro – uso di queste tecnologie può implicare un effetto paradossale: un allontanamento dall’esperienza digitale percepita non reale, fittizia. Per correre ai ripari e operare in maniera oculata si possono intendere gli archivi online e le esperienze in virtual reality come sistemi di supporto – e non espressamente sostitutivi – della comunicazione del patrimonio culturale. A questo proposito è utile chiarire il ruolo delle tecnologie digitali nei processi di preservazione della tradizione. Diversamente da quanto si possa pensare, con l’avvento del digitale la tradizione non cessa di esistere ma il concetto che la vede ancorata al luogo, collocata nel tempo.

reperto da museo di antropologia

A tal proposito l’antropologa Jane M. Jacobs (2004) sostiene che la tradizione è stata effettivamen­te creata dall’immaginario della modernità stessa: durante i processi di globalizzazione, la tradizione viene rimodellata e ravvivata in una serie di modalità inaspettate. Piuttosto che eliminare la tradizione, ci chiede di ripensare alla tradizione e alla moder­nità come se fossero in continua evoluzione. In questa prospettiva l’analisi etnografica del patrimonio culturale va intesa come una occasione per sondare le esperienze estese dell’inconscio nei canali della comunicazione digitale.

Per tentare di comprendere il futuro bisogna ragionare osservando la realtà a 360°: studiare i musei, la loro comunicazione, il luogo reale e potenziale dove opera (quindi la rete di cui fa parte),  il tipo di utenza. Oggi è impossibile comprendere i fenomeni tenendo fuori l’approccio digitale e soprattutto, nell’ottica della comunicazione museale, è necessario comprendere le tecniche visuali di presentazione e diffusione del patrimonio culturale a partire dai siti dei musei stessi.

Riflessioni sullo stato dell’arte e nuove prospettive

Il diritto ad una vita culturale attiva è sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani all’Art. 27 per cui: “ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici”.

Su questo principio è possibile riflettere sulla situazione attuale: la chiusura e l’inaccessibilità della stragrande maggioranza delle strutture museali e il diritto a godere della cultura del nostro paese. La pandemia ha costretto i governi a porre delle limitazioni che, in Italia, si sono ragionevolmente trasformate presto in una chiusura vera e propria. Presi alla sprovvista, molti musei italiani – e non solo – si sono in poco tempo re-inventati con programmi online e sui social per promuovere i contenuti museali sotto l’ombrello dell’iniziativa #museiaperti e la campagna #laculturanonsiferma attraverso Facebook, Instagram e Twitter come descritto in un articolo de ilsole24ore del 14 Marzo 2020. Tuttavia non tutte le strutture hanno potuto adeguarsi. I musei etnografici Italiani sono per la stragrande maggioranza piccole strutture. Molte di queste avevano già strutturato dei percorsi virtuali, o comunque, delle funzionalità che permettessero agli utenti di curiosare online nelle collezioni offerte.

Mancanza di investimenti nel digitale

Tuttavia, la mancanza di investimenti nel settore del digitale, non soltanto nell’ambito dei beni culturali ma in tutti gli ambiti inseriti in maccanismi e logiche competitive di mercato globale, ha palesato i suoi problemi proprio in questo periodo di crisi. L’inaspettata comparsa del virus non è da considerarsi come l’unico evento scatenante della crisi, ma secondo una visione storico-prospettica, il lockdown e l’impossibilità di venire incontro alle esigenze del pubblico per via della mancanza di risorse e strumenti digitali ha rafforzato il digital divide che si è mostrato come un abisso – in certi casi – non facilmente e immediatamente colmabile in Italia.

Queste difficoltà tuttavia possono generare occasioni di riflessione e pianificazione per il futuro. Se da un lato è possibile studiare e proporre iniziative su scala europea per la valorizzazione del patrimonio culturale (e in maniera similare alle altre nazioni del mondo) oltre che la creazione di un fondo specifico per l’adeguamento digitale dei musei, dall’altro lato si potrebbe iniziare ad affrontare una questione di carattere squisitamente culturale ed educativa: ripensare il concetto di spazio e l’esperienza che si può vivere all’interno di esso.

Edward Casey e il concetto di emplacement

A tal proposito lo studioso Edward Casey introdusse il concetto di emplacement per indicare la connessione fra i corpi e le situazioni in cui agiscono:

«Lontano dall’essere muto o diffuso, il corpo vivente è tanto intelligente relativamente alle specificità culturali di un luogo quanto esteticamente sensibile alle particolarità che percepisce di quel posto. […] Come i luoghi raccolgono i corpi nel bel mezzo di modi profondamente inculturati, così le culture congiungono i corpi in concrete circostanze di posizionamento dello spazio» (Casey, 1996, p.46).

Il corpo è senziente, necessita di strumenti ed elementi che lo coinvolgano e che lo rendano partecipe attraverso la stimolazione di emozioni e sensazioni: deve altresì esprimere multiple ecologie dell’appartenenza mentre innesca trasformazioni sensoriali e percettive per essere esperenzialmente un tutt’uno con il luogo, con il cosmo (Braidotti, 2014; D’Ambrosio 2019). Il corpo si muove sempre in un ambiente sia sociale che fisico, come è ben illustrato dal complesso di valori sociali e sensoriali contenuti nel sentirsi “a casa” (Howes, 2005, p.7). Il luogo è da intendersi, secondo questa prospettiva, come un evento, qualcosa che piuttosto che esistere è un qualche archetipo di spazio: un determinato luogo che assume le sue qualità dai suoi occupanti e di conseguenza non soltanto è, ma accade (Casey, 1996, pp. 26-27).

L’arte che abita i luoghi

Oltre a questo le produzioni materiali e immateriali che contribuiscono alla strutturazione di quel luogo influenzano il concetto e la definizione di un determinato spazio. Lo ricorda Ivan Bargna, parlando dell’arte e il suo rapporto con i luoghi che abita:

«L’arte non è più così confinata nello spazio neutro del white cube (lo spazio neutro della galleria) ma interagisce con luoghi abitati (naturali o antropizzati) modulandosi in rapporto a essi e trasformandoli, in maniera evidente o quasi impercettibilmente. Non solo: luoghi e contesti vengono pensati sempre più in termini di costrutti relazionali e culturali e non semplicemente a partire dalle loro caratteristiche fisiche e dalla coordinate spaziali mostrando così una sensibilità e un interesse di tipo sociale e antropologico» (Bargna, 2011).

Pensare i luoghi, i beni e le persone come elementi di un ambiente fluido e in continuo mutamento è un passo necessario per guardare al futuro, anche per l’antropologia. I musei e tutti i possibili stakeholders del settore dei beni culturali devono operarsi di una visione di progetto che abbia come vision un costrutto teorico simile a quello presentato poc’anzi, ma soprattutto devono tendere al futuro con un idea (o un complesso coeso e sistematico di idee) sostenibile e a prova di crisi.


Bibliografia e Sitografia

  • I. Bargna, Gli usi politici dell’arte contemporanea fra pratiche di partecipazione e di resistenza, http://dx.doi.org/10.14672/ada2011169%25p, Antropologia n°13 (Rivista), 2011.
  • G. L. Bravo, R. Tucci, I beni culturali demoetno-antropologici, Roma, Carocci, 2006;
  • M. Canevacci, Antropologia della comunicazione Visuale. Esplorazioni etnografiche attraverso il feticismo metodologico, Milano, PostmediaBooks, 2017;
  • M. Canevacci, SincretiKa, Roma, Bonanno, 2014;
  • E.S. Casey, “How to get from space to place in a fairly short stretch of time”, in Feld, S., Basso, K. (a cura di), Senses of Places, Santa Fe: New Mexico, School of American Research Press, p. 13-52, 1996.
  • E. Chirchiano, Il museo fra passato e future. I beni culturali nell’epoca dei media digitali, Roma, edicampus edizioni, 2020.
  • I. Chiva, G. H. Rivière, un demi-siècle d’ethnologie de la France, Terrain, Numéro 5, Identité culturelle et appartenance régionale (Octobre 1985), put online 17 July 2005.
  • F. D’Ambrosio, L’arte come ambiente postumano: l’ecologia del Dao, doi: 10.7413/24208914031, Scenari di Mimesis, 11, 136-147.
  • G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Nocera Inferiore, orthotes, 2017.
  • Gadamer H.G., Verità e metodo, Milano, Bompiani, 1983.
  • D. Howes,  “Introduction”, in Howes D. (a cura di), Empire of the Senses: The Sensory Culture Reader, Berg Publishers, Oxford, p. 1-17, 2005.
  • T. Ingold, “Bindings against boundaries: entanglements of life in an openworld”, Environment and Planning, vol. 40, p. 1796-1810, 2008.
  • J.M. Jacobs, Tradition is (not) modern: Deterritorializing globalization. InThe End of Tradition?, London and New York, Routledge, 2004.
  • L. Manovich, Software culture, Milano, Olivares, 2011.
  • F. Marano, L’etnografo come artista. Intrecci fra antropologia e arte, Roma, Cisu, 2013.
  • F. Tilden, Interpreting our heritage: Principles and practices for visitor services in parks, museums, and historic places, University of North Carolina Press, 1957.
  • R. Tucci, Introduzione all’applicazione delle normative per la catalogazione dei beni culturali demoetnoantropologici, MIBACT_ICCD, 2015.
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