Il ricordo degli anni Venti negli Stati Uniti sarà oggi anche tenue e non particolarmente rievocato dai libri di storia, ma resta che nel primo dopoguerra gli USA conobbero una prosperità quanto mai formidabile e che la loro economia crebbe a ritmi strepitosi, irraggiungibili, al di là della più fervida immaginazione: erano “gli anni dell’euforia”,”i ruggenti anni Venti” (Roaring Twenties), e come potevano essere battezzati altrimenti?

All’insegna del liberismo e del protezionismo

La ricetta di un’espansione così portentosa erano le politiche economiche liberiste che il Partito Repubblicano patrocinò energicamente per tutto quel decennio straordinario: dalla riduzione delle tasse e dal ridimensionamento della spesa pubblica alla deregolamentazione e alla promozione assoluta della libera concorrenza. All’ortodossia liberista fu inoltre affiancato un fermo protezionismo, dimodoché gli Stati Uniti ben difesero le proprie industrie, come dimostra il fatto che la produzione industriale aumentò di un terzo. I risultati di queste politiche erano concreti e promettevano un avvenire radioso, suscitando un ottimismo che non aveva limiti. Basti pensare che l’incremento strabiliante del reddito aveva portato nelle case milioni e milioni di elettrodomestici avveniristici: aspirapolvere e frigoriferi erano diventati ormai degli oggetti talmente scontati da non destare più alcuna meraviglia e alcun desiderio.

Automobili e settore terziario

Ma l’emblema degli anni ruggenti fu l’automobile, che non fu più un bene di lusso, visto che la stragrande maggioranza degli americani poteva tranquillamente permetterselo. Addirittura vi era una vettura ogni cinque abitanti, praticamente una per famiglia (in Europa si sarebbe raggiunta questa incredibile diffusione soltanto negli anni Sessanta, quarant’anni più tardi). La novità tuttavia non consisteva solamente in quello sviluppo industriale prodigioso: durante gli anni dell’euforia e per la prima volta nella storia avvenne la terziarizzazione dell’economia, poiché gli addetti ai servizi superarono per numerosità e consistenza la classe operaia. Fu un traguardo storico, dal quale l’Europa era ancora distante anni luce, se si pensa che la popolazione di molte nazioni europee era ancora occupata prevalentemente non già nell’industria, ma nell’agricoltura e nell’allevamento. Gli Stati Uniti diventarono così già negli anni Venti la società della classe media per antonomasia e si divulgò in tutto il mondo l’immagine degli americani come popolo impiegatizio di colletti bianchi dedito al consumismo. A spadroneggiare era la finanza e Wall Street assurse a epicentro dell’intero boom economico americano, dove tutti i cittadini, da New York fino a Los Angeles, potevano condurre le loro speculazioni finanziarie in tempo reale e con la certezza pressoché assoluta di ricavarne lauti guadagni.

La supremazia del partito repubblicano

L'elefante simbolo del partito repubblicano
L’elefante simbolo del partito repubblicano

Di fronte a quell’incredibile progresso, non stupisce quindi che i Repubblicani poterono governare ininterrottamente per tutti gli anni ruggenti, vibrando al Partito Democratico una bruciante sconfitta ad ogni tornata elettorale: nel 1920 Harding vinse col 60,3% dei voti, nel 1924 fu la volta di Coolidge, forte del 54% dei suffragi (il suo rivale democratico ne riuscì a conquistare soltanto il 28,8%), e nel 1928 fu infine il turno di Hoover, che fu eletto Presidente col 58,2% dei voti. La geografia del voto è ancora più eloquente delle cifre, già di per sé disarmanti, dal momento che il Partito Repubblicano surclassò i suoi rivali in ogni singolo Stato, con la sola eccezione del Profondo Sud (specialmente Texas, Louisiana, Alabama, Mississippi e Georgia), che categoricamente votò sempre democratico tutte le volte che si tennero le elezioni presidenziali.

L’urbanesimo e la Scuola di Chicago

Robert Park, esponente di spicco della Scuola di Chicago
Robert Park, esponente di spicco della Scuola di Chicago

Industrie imponenti, elettrodomestici confortevoli, automobili di fronte alle quali si stagliava un universo tutto nuovo e rilucente, fatto di mobilità e di libertà; ma anche metropoli immense, irte di grattacieli monumentali: anche questo furono gli anni dell’euforia. Dagli Stati Uniti si propagò la civiltà metropolitana della contemporaneità. Da cittadine fino a un secolo prima dimesse e sperdutesi diramarono dedali urbani che ben presto divorarono voracemente terreni agricoli, fattorie, colline, foreste, soppiantate da agglomerati infiniti, sfavillanti e rutilanti e che quasi fossero calamite attraevano a sé milioni di immigrati dalle aree rurali e persino da altri continenti. Nei ruggenti anni Venti e posta di fronte all’apoteosi della metropoli, la sociologia non poteva che essere destinata a fiorire anch’essa e a svilupparsi non meno di quella società spettacolare che si proponeva di studiare. La Scuola di Chicago divenne l’inattaccabile caposaldo della sociologia, permettendo ai metodi qualitativi di pervenire alla loro massima espressione. D’altronde, mai come allora l’etnografia e l’ecologia urbana rivelarono tutto il loro imponderabile potenziale, ancora custodito in opere immortali, non di rado tomi monumentali: “La città”, dove Park e i suoi si industriarono per comprendere a fondo l’urbanesimo, “Il contadino polacco in Europa e in America”, consacrata all’alienazione e alla meraviglia di chi emigrava dalle povere campagne europee a Chicago, “Middletown”, dedicata ai centri urbani inferiori dove non si creda che l’evoluzione sociale in atto valesse a scardinare i valori tradizionali.

Stefano Ghilardi

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