Il gioco al giorno d’oggi è un oggetto di studi in piena rivalutazione. Esso può essere considerato come un’attività pre-sociale che consente la socializzazione degli individui.

Il gioco come metodologia

Seguendo l’impostazione neurologica data dalle parole di Raph Koster (2005), il gioco non sarebbe altro che “l’insieme dei feedback che il cervello ci dà quando assembliamo più modelli mentali per scopi di apprendimento“, in altre parole, il gioco consentirebbe, attraverso la manipolazione coscienziosa degli elementi culturali che acquisiamo in maniera continua, di diventare padroni dell’ambiente circostante, o per meglio dire, di muoverci più o meno agevolmente in esso, acquisendo quelle abilità e quell’esperienza tali da poter a nostra volta intervenire creativamente, costruendo un mondo a nostra fattura, che sia adeguato per le nostre esigenze, un vero e proprio “mondo a forma di uomo”. In questa prospettiva, l’interfaccia ludica che si utilizza per comprendere il mondo che ci circonda risulta il metodo più pervasivo e utile per farlo, in quanto i fattori che entrano in gioco in una situazione di questo tipo contemplano il coinvolgimento di quelle sensazioni ed emozioni basilari, profonde, che sono difficilmente controllabili o regolabili con il raziocinio, come la gioia, il dolore, la paura, il desiderio e persino l’amore: tutte emozioni che possono essere messe alla prova, allenate, grazie alla possibilità di riviverle con la “ripetibilità” propria dell’evento ludico. Il gioco allora può essere considerato come una metodologia alternativa per la costruzione del senso sia soggettivo che oggettivo e risulta essere fondamentale soprattutto negli studi socio-psicologici.

Ethos del gioco

In tempi recenti ha ricevuto l’interesse persino del settore commerciale e delle aziende in primis, tanto che si parla di una incessante “gamificazione” dei sistemi comunicativi e della società in generale come noi li conosciamo. Secondo Jeremy Rifkin (2000) infatti, oggi si assiste al passaggio dalla metafora del lavoro a quella del gioco. Se il mondo dell’economia e dell’impresa migra dal capitalismo industriale a quello culturale, l’ethos del lavoro viene sempre più sostituito dall’ethos del gioco: giocare diventa il modo degli individui per creare cultura e il capitalismo contemporaneo contribuisce alla sua permeazione nei diversi ambiti della vita quotidiana e lo rende mercificabile. Per molto tempo lo studio del gioco è stato semplicemente “la storia dei giocattoli”. Questi venivano considerati come semplici e insignificanti svaghi infantili e non si pensava di attribuir loro un valore culturale, né tantomeno li si percepiva come un qualcosa degno dell’interesse scientifico. Dato che per secoli il gioco è stato visto solamente come un’attività ricreativa, senza scopi, le ricerche e gli studi degni di nota su questo vasto argomento interdisciplinare sono piuttosto recenti. Il gioco riposa e diverte. Evoca un’attività non soggetta a costrizioni, ma anche priva di conseguenze per la vita reale. Si contrappone alla serietà di questa e viene perciò qualificato frivolo, non produce alcunché: né beni né opere (Roger Caillois, 2000).

Di-vertere

Il gioco del bambino, il gioco d’azzardo, l’agonismo sportivo (e non), sono tutte pratiche che vengono accomunate, che si distanziano dall’ambito della produttività e che riguardano esclusivamente il piacere e il divertimento. Proprio l’etimo della parola “divertimento” fa comprendere in prima analisi il perché di questa separazione di ambiti vitali, poiché esso trae origine dal latino “divertere” ovverosia il volgere altrove, in direzione opposta, una sorta di deviazione che è stata interpretata a lungo in maniera negativa e che ha concesso l’idealizzazione del concetto di gioco come, appunto, un qualcosa che diverge dall’ordinario inteso come lavoro dotato di senso e scopo ma che, nei contesti contemporanei, assume un valore positivo che può essere definito come la predisposizione emotiva a scoprire realtà altre, quindi un indice di flessibilità mentale e sociale che consentirebbe una conoscenza più appagante sia della realtà percepita che di quella percepibile, proponendosi come una tipologia creativa del classico processo di tipizzazione, ossia, quella semplificazione cognitiva che adoperiamo per far rientrare nel nostro universo simbolico di riferimento, oggetti e situazioni problematiche (Peter L. Berger, Thomas Luckmann, 1969).

Tra ordine e caos

In un certo qual modo, questa separazione tra la sfera del gioco e quella della serietà potrebbe trovare una giustificazione anche nella divisione di matrice teologica di ordine e caos. L’ordine, rappresentato da un’idea del lavoro di matrice calvinista e dunque inteso come un’attività onerosa e strutturata per il raggiungimento del successo materiale sulla terra come testimonianza di una benevolenza divina, sarebbe il principio fondamentale su cui si baserebbero le società umane come le si conosce oggi. Al suo opposto ci sarebbe il caos, in qualche modo consentito esclusivamente all’infante nella forma di giochi spensierati e sregolati, la cui pratica va però fermata nel momento in cui raggiunge un’età raziocinante che gli consenta di ottemperare ai doveri di creatura di Dio attraverso il successo lavorativo. Fino ai nostri giorni, i giochi sono stati percepiti come pratiche tese a evitare, o comunque, mascherare le difficoltà della vita quotidiana. Questa idea si concretizzò scientificamente nell’ormai classica contrapposizione di due tipologie specifiche di soggetti, ovverosia l’Homo faber, operoso artigiano capace di creare, costruire, trasformare l’ambiente e la realtà in cui vive adattandoli ai suoi bisogni e l’Homo ludens, ovverosia l’uomo caratterizzato da un naturale interesse verso il gioco, propenso a occupare col divertimento il suo tempo libero, il loisir di moriniana definizione (Edgar Morin, 2008).

Hic et nunc

Questa visione dicotomica, che contrappone e separa un tempo lavorativo-produttivo e un tempo per lo svago, non riesce più a rappresentare le situazioni attuali. Il tempo percepito dal soggetto contemporaneo non incontra separazioni nette in quanto vive entrambe le tipologie indistintamente, come se fosse immerso in un fluido a-temporale in cui tutto cambia velocemente, quasi non consentendo nessuna percezione del mutamento. L’unica effettiva differenziazione che può essere ancora riscontrata e percepita, riguarda l’intercambiabilità repentina e traumatica delle situazioni, altresì i palcoscenici di Goffmaniana concezione (Erving Goffman, 1997). In pratica, gli individui non riescono più a percepire una scena e un retroscena ma soltanto un presente schiacciato, un hic et nunc godibile sulla soglia dell’attimo, in cui i soggetti si trovano a interpretare ruoli cangianti non propriamente pubblici né tantomeno esclusivamente privati, indossando perennemente delle vere e proprie maschere metamorfiche la cui consapevolezza da parte dei soggetti che le indossano, porta a una nevrosi da information overload.

Francesco D’Ambrosio

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