La ricerca sociologica da molto tempo ha evidenziato una grande contraddizione quando viene trattato il tema del lavoro: da un lato viene criticato in quanto viene identificato come una mera attività strumentale orientata al consumismo, dall’altro lo esalta come mezzo che permette all’individuo di realizzarsi e procurarsi quanto necessario per la propria sopravvivenza. La flessibilità e il precariato sono elementi che caratterizzano il lavoro nella società post – industriale.
Il lavoro dalla rivoluzione industriale alla globalizzazione
Il lavoro, per millenni, ha avuto una connotazione negativa; ad esso viene spesso associato il concetto di pena, dolore, fatica. La situazione inizia a cambiare nel Settecento, in Inghilterra, con la nascita delle primissime Factory, ovvero un insieme di edifici atti alla produzione industriale. Fino alla seconda metà dell’Ottocento, la rivoluzione rimase confinata soprattutto in Inghilterra, sebbene la sua influenza si fece sentire anche in alcune zone della Germania e in Belgio. Un ulteriore accelerazione avverrà nell’ultimo ventennio dell’Ottocento quando, l’invenzione dell’elettricità, consentirà la progettazione e la costruzione di una nuova generazione di macchinari. Nel frattempo, la rivoluzione industriale iniziò a coinvolgere un sempre maggior numero di paesi, quali l’Italia (soprattutto l’asse Milano – Torino – Genova), alcune zone dell’impero austro ungarico e la Russia.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, la creazione del motore a combustione interna e la successiva invenzione dell’automobile, condurranno il mondo occidentale verso il gigantismo industriale contraddistinto da enormi edifici presso i quali lavorano migliaia di dipendenti che svolgono la propria attività dentro un sistema estremamente organizzato presso il quale viene applicata una rigida divisione del lavoro con lo scopo di ottimizzare la produzione e di conseguenza dilatare sensibilmente il profitto. Quest’ultima fase che coinvolse il ventennio finale dell’Ottocento, viene comunemente definita seconda rivoluzione industriale. In questa fase storica, si instaura un modello produttivo che coniuga la divisione del lavoro, tipica del modello produttivo Taylorista (divisione scientifica del lavoro) e Fordista (organizzazione della produzione attraverso la catena di montaggio).
Il lavoro e la terza rivoluzione industriale
La prima metà del Novecento viene ricordata soprattutto per le due guerre mondiali che oltre ad aver seminato morte e distruzione, hanno sensibilmente influenzato la produzione industriale in quanto, molte grandi fabbriche, convertirono la propria produzione in favore delle armi in una continua gara verso lo sviluppo di ordigni sempre più potenti. In sostanza, anche in questa fase, pur in una situazione non favorevole allo sviluppo, il principio che sta alla base dello sviluppo industriale non venne meno.
Dagli anni Settanta del Novecento a oggi si sta assistendo ad una terza rivoluzione industriale basata essenzialmente sull’informatica e l’elettronica e che ha visto un enorme sviluppo del settore dei servizi e la produzione di beni non fisici. Oggi si sta assistendo ad un mondo contraddistinto dal movimento di informazioni e dati. Parallelamente, molti paesi dell’Asia orientale, stanno affrontando una fase di sviluppo industriale pressoché speculare a quella che ha visto protagonista l’Europa ma con una velocità di progressione nettamente più rapida in quando unisce da un lato la crescita dell’industria ma potenziata dalla componente tecnologica e informatica.
La precarizzazione del lavoro moderna
Robert Solow, nel testo. “Il mercato del lavoro come istituzione sociale” afferma come lo status sociale e la stima in sé stessi sia fortemente legata all’occupazione e al reddito. La precarizzazione del lavoro, attraverso l’atipicità contrattuale rende questo obiettivo difficile da raggiungere. L’atipicità contrattuale si realizza soprattutto attraverso contratti a tempo determinato che a loro volta si declinano in: contratti part – time; apprendistato; stage formativi; a chiamata; collaborazione coordinata e continuativa; somministrazione. Il lavoro atipico è diffuso in tutti i settori produttivi; i lavoratori coinvolti in questo sistema si diversificano molto per forme contrattuali, retribuzione, orario di lavoro; ma sono accumunati dall’instabilità e dalla precarietà.
Un secondo elemento è legato al salario che non consente sempre al lavoratore di poter essere autonomo ed è quindi costretto a dipendere da persone terze. Infine il progressivo indebolimento della protezione sociale dei lavoratori. Sebbene la precarizzazione sia un fenomeno che coinvolge l’intera società, a subirla maggiormente sono le categorie sociali maggiormente a rischio quali immigrati, donne, giovani, individui con vulnerabilità.
La flessibilità del mercato del lavoro moderno
A partire dagli anni Ottanta del Novecento, Italia e più in generale nei paesi occidentali, il mondo del lavoro è stato travolto da una miriade di trasformazioni che spesso vengono raggruppate attorno al concetto di flessibilità. La flessibilità rappresenta la scarsa possibilità dei lavoratori di occupare la medesima posizione lavorativa nell’arco dell’intera vita. Si fa strada nel mercato del lavoro con lo scopo di immettere all’interno del sistema un maggior numero di lavoratori, abbattere la disoccupazione attraverso contratti di lavoro meno vincolanti e onerosi per le aziende.
Di conseguenza, si fanno strada forme di contratto denominate “atipiche”, ovvero che sradicano l’idea del contratto a tempo indeterminato subordinato e di lavoro autonomo come forme di contrattazione di riferimento e la progressiva dissolvenza del modello Taylorista – Fordista causato da diversi fattori, quali: la crescita del potenziale economico dei paesi in via di sviluppo che consentono un costo del lavoro inferiore rispetto al mondo occidentale; crisi energetica e conseguente aumento del prezzo delle materie prime, soprattutto il petrolio; diffusione del consumismo; rafforzamento del potere sindacale della classe operaia; peggioramento delle condizioni del lavoro causata dalla competizione produttiva; moti sociali degli anni Sessanta del Novecento e la l’esaurimento della spinta delle politiche fondate sull’ideale di Keynes di allargamento del bacino della spesa pubblica.
Post-modernità liquida
La post modernità è dunque liquida – come enunciato dal noto sociologo Zygmunt Bauman – che sostiene l’idea della progressiva perdita di valori dei rapporti sociali in campo civile, ed economico e di come l’etica del lavoro venga privata del proprio significato. Ciò comporta una progressiva perdita di attenzione nei confronti del lavoratore. Nel testo “L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale” Richard Sennet evidenzia come le stesse carriere lavorative non procedano più in maniera lineare come accadeva con il modello Taylorista – fordista ma con periodi di linearità accompagnati da altri di non linearità. Ciò si traduce nella necessità per l’individuo di adattarsi nuove esigenze e situazioni. La possibilità di emergere è certamente maggiore rispetto al passato ma ciò comporta di pari passo la difficoltà nel prevedere il percorso della propria carriera lavorativa
Ciò che il moderno mercato del lavoro richiede sembra essere capacità di resistere, di adattarsi al mutare delle circostanze. Il precariato costringe il singolo attore sociale a ricominciare da zero ogni volta. Questo va ad incidere negativamente sul processo sociale di autodeterminazione a causa del continuo e incessante ricollocamento nel tessuto sociale. In questo modo, il lavoro si riduce a mero strumento per la sopravvivenza.
Andrea Zampieri
Riferimenti bibliografici e sitografici
- Z.Bauman, Modernità liquida, Laterza, 2011
- R. Sennet, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, 2016
- R. Solow, Il mercato del lavoro come istituzione sociale, Il Mulino, 1994