Il 2020 si era presentato alle porte della nuova decade carico di ottimismo e di fiducia nel progresso e nelle potenzialità delle tecnologie.
E invece, sono bastate poche settimane affinché l’impatto globale del Coronavirus facesse crollare tante certezze su cui questa “narrazione” deterministica si poggiava.
Intrappolato nella “sussunzione reale” (per dirla alla maniera di Marx ma intenderla in una più ampia accezione foucaultiana), la quale ha inserito non solo il lavoro ma l’intero ciclo vitale nella logica mercificatoria del neocapitalismo, l’essere umano riesce a fatica ad interpretare le contraddizioni del proprio tempo e, dunque, a metterle in discussione.
Eppure, proprio dalla frattura storica che stiamo vivendo in questo periodo, si iniziano a scorgere diversi paradossi della post-modernità.
Quando il 26 aprile dell’86 scoppiò la centrale nucleare di Cernobyl, Ulrick Beck aveva da poco pubblicato un saggio dal titolo profetico: “La società del rischio”.

All’epoca la società non volle ammettere il fallimento di un sistema orientato quasi esclusivamente dal valore dell’economica, dalla logica deterritoriale dei mercati finanziari, dal ribaltamento di primato dell’economia sulla politica, di cui il neo-liberismo si è fatto portavoce.
Gli stati non provarono a riadattarsi, a risolvere gli effetti perversi della globalizzazione, a creare un sistema globale autopoietico e resiliente, capace di far fronte ai rischi ambientali. In definitiva, la vittoria della “strategia del capitale” ai danni della “strategia degli stati”, in quel “metagioco” di potere descritto da Beck.
In effetti, quando le conseguenze dei rischi ambientali sono localizzabili, come nel caso di Cernobyl, o lontani nel futuro come l’esaurimento delle risorse naturali, i problemi strutturali del nostro sistema non ci sembrano delle priorità evidenti da affrontare.
La realtà è che tale sistema è in un rapporto di dipendenza e di reciproca influenza con l’ambiente, una dimensione che abbiamo dimenticato e fatto finta di ricordare di tanto in tanto, presi dall’arroganza consumistica e frenetica della post-modernità. Il Coronavirus è riuscito a schiaffare in faccia questa realtà a tutta la società, anche più di quanto Greta Thunberg e tutti i movimenti ecologisti erano riusciti a fare, proprio perché i suoi effetti sono immediatamente tangibili e allo stesso tempo globali, condivisi globalmente.
E’ chiaro che l’incertezza del momento si ripercuote anche nelle risposte ad alcuni interrogativi che possono mettere a critica la mia fiducia nella coscientizzazione di massa: come reagiranno gli Stati al momento della ripresa? E le soggettività delle persone? Il Coronavirus ha davvero spogliato il sistema di tutte le sue nefandezze e contraddizioni? Ci sarà un rafforzamento del sovranismo e del nazionalismo o maggiore collaborazione tra nazioni verso un mondo cosmopolita? Tutto ciò sarà narrato come un brutto sogno di primavera o come il risveglio dal letargo?
Una cosa è certa, le nostre generazioni non immaginavano lontanamente di vivere un simile scenario di incertezza presente. Tuttavia, proprio lo shock dato dalla rottura delle nostre routine ci sta facendo scoprire idee perdute. L’uso necessario dello smart working svela le potenzialità del pensare un modo di lavorare socialmente sostenibile, che riconosca ai lavoratori più agii e maggior tempo libero, svincolandoli dal rigido organigramma tradizionale che stressa e aliena. Ne è un esempio evidente mia madre, lavoratrice pendolare che a 50 anni usa per la prima volta il computer per lavorare da casa e ne apprezza i benefici psico-fisici.

Cambiando forzatamente punto di vista, abbiamo la possibilità di accorgerci di pratiche che quotidianamente riproducono logiche che crediamo ovvie e assolute, ma che in realtà recano danni alla nostra socialità e al nostro benessere.
Senza dubbio non risolveremo ora tutti i problemi della nostra società (molti irrisolvibili), ma ci può far ben sperare vedere che l’individualizzazione della “modernità liquida”, inizia a conoscere quello spirito comunitario e solidale che può farsi mainstream. Un’empatia perduta ci fa sentire tutti umani contro un nemico che umano non è.
Persino la politica si trova costretta ad adottare nuovi modi di agire: il governo italiano ha eliminato il retaggio dell’esame di Stato nell’accesso all’abilitazione per le lauree di medicina, chiaramente per far fronte ad una mancanza sanitaria che non si riteneva di primaria importanza, almeno fino all’altro giorno.
La globalizzazione è un paradosso, anche Beck lo sapeva. Così come un’epidemia in una città remota della Terra ha la possibilità di evolversi a pandemia, grazie alla globalizzazione anche “la strategia della società civile”, costituita dalla rete di movimenti dal basso che si espandono su scala mondiale, può intensificarsi ed imporsi.
Per semplificare, mentre l’ambiente spinge il sistema dall’alto, come sta facendo il Coronavirus in questo momento storico, noi potremmo iniziarlo a spingere “dal basso”, aspirando ad una società globale che sappia far dialogare sostenibilità socio-ambientale e sostenibilità economica e che, “addirittura”, misuri il peso a lungo tempo delle proprie scelte.
Magari così facendo, il prossimo rischio ambientale non ci costringerà a vivere un periodo indefinito chiusi in casa, mentre fuori l’economia va a rotoli.

Sono un napoletano cittadino del mondo. Amo la Sociologia e studio a Bologna per la Magistrale in Ricerca Sociale. Amo il giornalismo e da quattro anni sono giornalista pubblicista.