Nell’articolo precedente in cui avevamo parlato delle categorie sociologiche avevamo accennato che per ogni categoria si poteva trarre un argomento annesso. Il primo che proponiamo è un argomento non del tutto nuovo ma che potrebbe essere visto da accezioni diverse. La categoria presa in esame è quella legata al “potere” inteso come carisma, forza ma ad essa possono essere correlate anche le categorie di “genere” e, per alcuni aspetti, anche di “ruolo“. Parlare di leadership femminile implica dunque aprire argomenti legati non solo al concetto di “potere” ma anche alla condizione della donna nella società. Argomenti che occupano un posto importante negli studi psico-sociali.

La leadership

Questa espressione racchiude due “mondi”, per i più, diametralmente opposti ma che hanno entrambi un significato profondo e, per alcuni versi, correlati. Secondo gli studi di psicologia sociale, con il termine leadership s’intende la capacità, il carisma che ha una persona di influenzare e/o mobilitare un gruppo sociale verso il raggiungimento di determinati obiettivi prefissati dal gruppo stesso. Ma se volessimo scindere quest’affermazione e trovare dei nessi con la donna, riusciamo a farlo? Come possono combaciare tali concetti se, per antonomasia, la leadership è sempre stata considerata del genere maschile? Può la donna assumere ruoli predominanti all’interno di un rapporto sia esso di ordine politico, sociale, religioso, economico? O a separare questi due mondi vi è un “soffitto di cristallo”, solido da un lato, delicato e fragile dall’altro?

Questione di pregiudizi?

Bisogna guardare lontano, abbandonare false credenze che facevano della donna un soggetto non capace di ricoprire determinati incarichi. Occorre guardare agli elementi sottili, ma allo stesso tempo molto importanti e, oserei dire, anche d’impatto, che permettono o, per alcuni versi, impediscono ancora purtroppo, a questa soggettività di esprimere il meglio attraverso le proprie capacità. La donna è sempre stata considerata il sesso debole, il genere sottomesso. Ma cosa s’intende precisamente quando si parla di genere? Con il termine identità di genere s’indica, appunto, il genere in cui una persona s’identifica, cioè, se si percepisce come uomo, donna o qualcosa di diverso da queste due identità. Ma quando la donna ha capito che doveva uscire dalla condizione subordinata in cui si trovava secondo la storia trascorsa? È importante capire che la soggettività femminile può portare innovazione, stabilità, più responsabilità, una ventata di freschezza nei luoghi in cui lavorerebbero. Non che la soggettività maschile sia da meno, ma si dovrebbe entrare nell’ottica di costruire realtà organizzative, lavorative in cui soggettività maschili e soggettività femminili non vivono situazioni di disuguaglianze basate sul genere.

Il ruolo della donna

Nel contesto sociale, di qualsiasi cultura si tratti, esistono ruoli sociali ascritti e acquisiti che, nel corso della vita, si modificano e tendono ad adattarsi costantemente al continuo cambiamento della società e dell’individuo stesso. I ruoli sociali ascritti sono quelli che si hanno già dalla nascita, che caratterizzano cioè già un individuo fin dai suoi primi momenti di vita. D’altro canto sono considerati acquisiti quei ruoli che si assumono durante il corso della vita, ruoli che proprio lo scorrere inesorabile del tempo ci porta a cambiare, per crescere, per migliorarsi, per “posizionarsi” all’interno della società. Ed è così che un soggetto sociale, un “animale sociale” come, sociologicamente, è definito l’uomo, assume ruoli diversi a seconda delle situazioni che si trova dinanzi. Ma quanti ruoli può assumere un individuo? E, nel caso più specifico della donna, possono questi ruoli coincidere tra di loro o devono essere distinti e separati? Che ruolo può avere una donna?

Priorità o costrizione?

Con la sua inestimabile e imparagonabile possibilità di dare concretamente la vita, può assumere diversi ruoli e sono molte, moltissime quelle che tentano in tanti modi di far conciliare il loro ruolo di donne nella società, di madre, di moglie, di lavoratrice. Sono tutti questi ruoli acquisiti, con modi e mezzi diversi che però, nel bene o nel male, accomunano tutte. C’è chi prima cerca di crearsi un ruolo professionale soddisfacente, che sia il coronamento magari di anni di studi e sacrifici; c’è chi invece vuole realizzarsi dapprima nella sfera affettiva e quindi decide di creare una famiglia, di avere dei figli. Perché per alcune questi ruoli non possono combaciare? Perché c’è ancora, purtroppo, una distinzione che molte donne sono “costrette” a fare, domande che si devono porre perché qualora si trovassero nella condizione di dover affrontare una situazione, come ad esempio dover comunicare di essere incinte o già di avere un bambino in sede di colloquio di lavoro, o mentre già lavorano, se dall’altra parte non c’è una predisposizione all’ascolto, a capire che una donna deve lavorare ma allo stesso tempo può decidere di avere dei figli, c’è il rischio che queste soggettività cadano in uno sconforto totale da dove poi è molto difficile uscire.

Ricoprire ruoli di potere

Una donna ha le stesse capacità che ha un uomo in termini di riuscita professionale. Le statistiche ci informano che, oltretutto, si laureano e specializzano sempre più donne ma che purtroppo la precarietà del genere non permette pienamente a queste ultime di percorrere la stessa strada degli uomini. Quando si parla di concetti quali leadership, potere, autorità, comando, ruoli primari, carisma, si è soliti “affiancarli” al genere maschile. Ma sorge spontanea una domanda: perché? Quali differenze o quali motivazioni, qualora esistessero, portano i più a pensare che dietro questi concetti non possa esserci una figura femminile? Spesso si parla e ci si chiede che cosa manca e serve alle donne per arrivare a ricoprire ruoli di prestigio, di potere e se esistono delle differenze, implicite o esplicite, tra il genere femminile e quello maschile e in che cosa queste consistono.

Essere leader

Prima di entrare in merito al discorso sul genere e potere, occorre capire quali competenze servono affinché un soggetto possa essere definito leader, a prescindere da un’analisi sessista. La parola “leader” deriva dal verbo inglese “to lead“, ovvero “guidare”; il termine leader è usato come sinonimo di capo che, in un gruppo sociale, è chi ricopre un ruolo di comando o direzionale – da questo nasce il concetto di leadership – da intendere come un processo d’influenza sui membri del gruppo per il perseguimento degli scopi comuni. Come già detto, questi termini sono sinonimi tra di loro, se usati in senso lato. Possono però essere anche utilizzati secondo un’altra accezione, che va a considerare la fonte dell’autorità: il termine leadership, infatti, sta a indicare appunto un leader che guida dei seguaci in virtù dell’autorità che gli stessi gli hanno conferito dalla “leadeship”. Come già detto in precedenza, la figura di leader è sempre stata comunemente associata all’uomo e non alla donna. Sono però sempre gli stereotipi a marcare queste differenze. Può esserci una doppia visione del concetto di stereotipo concernente il ruolo della donna in quanto leader: da un lato vediamo la negatività nel guardare alle donne come potenziali leader se paragonate agli uomini; dall’altro vediamo com’è considerato l’effettivo nesso donna/leader rispetto a quello uomo/leader. I pregiudizi nei confronti delle donne sono sempre stati tanti e nonostante vi siano state lotte, conquiste per la parità dei diritti, ancora oggi si assiste ad inspiegabili argomentazioni sessiste qualora si vedesse una donna agire in cose che sono state fatte, in passato, solo e sempre da uomini. E allora dov’è questa parità, questa equità? È solo una fattispecie per far credere che le cose sono cambiate (e poi persistono ancora stereotipi e pregiudizi)?

Madre, moglie, lavoratrice

Secondo questi pregiudizi, se una donna non soddisfa appieno quello che comunemente le viene “associato” come se fosse una cosa scontata, naturale, è rivestita da un’aurea di negatività da un lato; dall’altro, e questo è quello che si spera fortemente accada, può anche essere vista con positività, poiché una donna che è madre e moglie, tiene in ordine la casa, ma allo stesso tempo ha una vita lavorativa soddisfacente, non è da considerare inferiore a un uomo. Ma talvolta si sentono in colpa se magari sono più dedite al lavoro e “trascurano” l’ambiente familiare o, viceversa, se danno più spazio agli affetti e mettono in secondo piano il lavoro. Ovviamente si tratta comunque di percezioni diverse da parte di ogni donna e di situazioni quindi soggettive e non oggettive. Il contendere è la disponibilità diversa nell’organizzazione della società attuale che marca la differenza di impiego. Ciò che può essere anche fonte di pregiudizio è anche la concezione che una donna con figli non può intraprendere, o continuare qualora già avesse un lavoro, una carriera professionale poiché si desume, erroneamente, che non abbia tempo per dedicarsi completamente al lavoro. La donna, nella nostra cultura, come purtroppo ancora anche in altre, è radicata, nell’immaginario collettivo, come quel soggetto che deve essere portato solo a fare determinate cose, come ad esempio curare la casa, rispettare il marito, educare la prole e se è “in carriera”, cosa che può essere concessa solo all’uomo, è vista quasi come se stesse tradendo quello che è considerato il suo mandato sociale. Per arrivare a una condizione di parità di genere in ambito al potere, e non solo, non c’è bisogno soltanto che le donne continuino a uscire dal lungo tunnel di sottomissione di genere in cui si sono trovate per molto tempo e per vari motivi, ma c’è soprattutto bisogno che si combattano certi luoghi comuni che tengono ancorati pensieri ancora a concezioni errate radicate nelle nostre culture.

Filomena Oronzo

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