Profilatosi dapprima come uno stato di stabilità e coerenza dell’Io (se ci stiamo concentrando sull’individualità) o del Noi (se stiamo parlando di un’entità collettiva), l’identità porta con sé alcune problematiche di fondo che rendono lo “schema fisso” della stabilità una matassa pletorica di anime “incastrate” l’una nell’altra, senza possibilità di sbrigliarle.

Il sociologo polacco
Zygmunt Bauman, filosofo e sociologo polacco naturalizzato inglese, cerca di soffermare la propria riflessione su questo concetto, cercando di trarne fuori quanti più indizi possibili, per delineare un quadro che possa rendere conto della complessità e al tempo stesso dell’omogeneità che necessariamente deve inerire a una qualsivoglia identità che si voglia identificare come tale. Il sociologo polacco, infatti, sostiene che quello dell’identità sia non un problema tra i problemi che la modernità ha lasciato dietro di sé; bensì, questo è il problema dei tempi moderni:
«se il “moderno problema dell’identità” riguardava come costruire un’identità e mantenerla solida e stabile, il “problema postmoderno dell’identità” riguarda primariamente come evitare la solidificazione e lasciare aperte le opzioni.»
(Zygmunt Bauman, Life in Fragments. Corsivo e traduzione dall’inglese miei)
Cerchiamo allora di addentarci nel problema e di scoprire quali domande occorre porsi per tracciare un quadro sufficientemente chiaro rispetto al rapporto tra identità e società.

Che cos’è l’identità?
Identità non nasce propriamente come concetto sociologico. Precipuamente, esso nasce come problema attinente all’ambito storicamente trattato dai filosofi: l’essere. L’essere, che in altre parole può essere riferito al classico problema che si è posto qualsiasi filosofo fin dall’antichità, ovvero la domanda: quali sono i caratteri costitutivi gli oggetti presenti in natura (come sono, come si danno, in quanti sono, e così via)?
Ecco, l’essere è il verbo proprio dell’esistente e, nel problema della determinazione dell’esistente, si pone il problema della sua conciliabilità con gli elementi di contraddizione: per esempio, quando si tenta di dare la definizione di cosa è l’essere umano per natura, si cade nel tranello di dare una definizione senza contradditorio, senza negazione di ciò che qualcuno afferma; insomma, non si può fornire una definizione di essere umano “al naturale” senza cedere a difetti di approssimazione colossali (l’essere umano è per natura egoista o altruista? Buono o cattivo? Eccetera) e finire in un gioco di contraddizioni senza chiarificare l’identità vera dell’essere umano (sempre questa impresa sia possibile…).
dalla filosofia classica…
Quindi, abbiamo detto che identità nasce come concetto legato all’essere e, dunque, alla filosofia classica. Ora, in sociologia il concetto può essere definito sulla base di ciò che gli individui e i gruppi credono di essere. Attenzione, però, non importa che questi o quelli siano effettivamente ciò che credono di essere, ciò che è importante sottolineare è che essi si credano tali, e che essi possono mutare i proprio caratteri (in parte) in base a ciò che fanno, pensano, credono, e così via… questo vale a dire che gli essere umani sono qualcosa di veramente molto complesso da essere concettualizzato e che non possono essere definiti una volta per tutte in modo univoco, tout court.

Detto ciò, mi permetto di suggerire una breve definizione di identità utile alla sociologia, e alle scienze umane più in generale:
«L’identità è una modalità dinamica di rappresentazione dell’Io.»
Quattro aspetti
Ora, di questa definizione ristretta dobbiamo chiarire quattro aspetti:
- modalità: sta a significare che questa o quella definizione del Sé non è statica, né per nascita, né per cultura; non è possibile considerare l’umano come un essere uniforme, ma semmai multiforme e polisemico, cioè che è capace di darsi diversi e molteplici modi d’essere (italiano, pigro, cattolico, studente, infermiere, ecc.);
- dinamica: vuole ricordare che, come già dicevo sopra, l’identità, il modo d’essere “idem a sé stessi”, è un’operazione dinamica, di movimento della coscienza; e soprattutto, non è data una volta per tutte;
- rappresentazione: essa è il fulcro, il perno attorno al quale ruota la riflessione, la rappresentazione è quella qualità dell’essere umano in quanto essere non solo essente ed esistenzialmente dato dalla natura o dalla cultura, ma soprattutto inteso come essere ideale che, idealmente, è in grado di creare mondi e anche – questo è il punto cruciale – sé stesso, dandosi una forma dovuta alle proprie rappresentazioni e modi di autorappresentarsi;
- Io: è l’attributo più misterioso che la filosofia e le neuroscienze possano trattare; cimentarsi nella definizione dell’Io, della Coscienza con la C maiuscola, è come trattare delle stelle senza binocolo; fornire un’interpretazione dei processi che portano all’identificazione di un unico Io per l’umanità è come svuotare di soggettività l’individuo, in quanto essere di fatto diverso perché diversi sono i modi di rappresentarsi dell’Io; come vedremo più tardi l’Io è un processo storico e condizionato dal contesto sociale nel quale è calato, a noi interessa questo aspetto sociale.

È chiaro che, come mi si potrebbe far notare, la definizione data è una definizione individualistica di identità e che non tiene conto delle identità collettive. A questa plausibile critica io rispondo che la rappresentazione del collettivo – l’identità collettiva, qualsiasi sia – non esiste essenzialmente fuori dalle nostre teste, né in natura. Dunque, se stiamo parlando di rappresentazioni, queste, per definizione (essendo cioè delle operazioni di ordinamento della realtà) non possono che essere insite nella nostra psicologia; sono, cioè, interne al processo stesso di rappresentazione, per questo allora sarà più agevole e coerente con tutto ciò utilizzare l’Io come termine di paragone dell’identità con la sua definizione. L’Io è, per darci un taglio con la definizione dell’oggetto, la base per ogni possibile rappresentazione, e quindi per ogni identità possibile.
Il fenomeno del “desembedding” in sociologia
Vi è chi, tra i sociologi, ha tentato di afferrare la costante crescita dei fenomeni di mobilità (geografica e verticale) tenendo conto di un concetto come il “desembedding”, che in italiano potrebbe suonare come “sradicamento” (o, più letteralmente, “dis-incorporamento”). Tra questi, lo sottolinea apertamente come carattere delle relazioni della “tarda modernità” Antony Giddens, il quale si permette di osservare come il desembedding porti con sé alcune conseguenze rilevanti, come la percezione del proprio posto nel mondo, della propria identità.

Bauman accoglie questo concetto per farne parte del discorso sul problema postmoderno identitario. «Chi sono/siamo?», dice Bauman, è il problema della nostra epoca; e naturalmente ha una forte implicazione non solo sul piano intra-gruppo, ma anche e soprattutto a livello inter-gruppo: cioè, quella domanda angosciosa che ci si fa guardando a sé stessi, la si proietta quando, ed emerge laddove, si intraprendano relazioni con l’“Altro”, il Diverso, lo Straniero. In questo senso, Bauman scorge nel problema identitario anche (ma questo è ancora più evidente se pensiamo ai fenomeni di crogiolo interculturale) una delle forme più conosciute di disagio del vivere in questo contesto: globalizzato, multiculturale, dinamico, imprevedibile, in una parola: in perpetua ricerca del “nuovo”, la modernità (o modernità liquida, come egli stesso preferisce definirla) ha finito per risolversi in un’epoca di repentino mutamento. Il mutamento è diventato la costante del nostro tempo.
Disembedding
Quindi, disembedding è il nome che diamo alla condizione postmoderna dell’identità. È il fenomeno che maggiormente contribuisce a dare vita a quello spettro che è l’incertezza rispetto la propria collocazione sociale. Non sapendo bene come collocarci rispetto all’“Altro” – che può essere lo straniero, come il vicino di casa – diventa difficile adottare delle misure di comportamento adeguate alla situazione, le quali sono frutto della nostra collocazione con l’Altro, cioè di come ci poniamo rispetto ad egli o ella che sia. Si tratta quindi di “misurarsi” con l’Altro in questione, di prendere le misure tra il suo raggio d’azione e il mio, di definire – per richiamarmi ai teorici di questo – il campo entro cui è lecito comportarsi in un certo modo e non in un altro.

Bauman aggiunge anche che l’«identità in quanto tale è un’invenzione moderna». Questo perché la ricerca di una coerenza – che sia individuale o di gruppo non fa la differenza in tal caso – è da attribuire precipuamente ai cambiamenti continui e perpetui a cui è sottoposta la società moderna (che lui rimanda alla metafora della liquidità), e che l’identità allora, che nelle società premoderne non era affatto un problema, anzi era qualcosa che si acquisiva ma che si dava per scontata, poiché non vi era alcun problema nel relazionarsi con ciò che era troppo dissimile da un proprio familiare o un componente del villaggio.
Questo ci porta al prossimo punto, che vede nell’identità un problema, un problema recente nella storia, e che solo nella modernità (“liquida” per Bauman, postmodernità per altri) si radicalizza ed esplode in modo dirompente.
Il problema postmoderno dell’identità
Il fatto stesso che l’identità – sia nel dibattito filosofico di cui abbiamo fatto cenno sopra, sia in quello sociologico degli ultimi anni, sia nel dibattito pubblico e nella sfera della politica – sia concettualizzata come un “problema” può lasciare perplessi analisti ed osservatori. Ciò può generare pericolosi equivoci in questo senso. Uno di questi riguarda la “natura”, se vogliamo, dell’aggettivo qualificativo “postmoderno”; termine che Bauman non ignora ma che gli va un po’ stretto rispetto alla sua lettura valutativa della modernità. Forse è per questo motivo che preferisce utilizzare la metafora della “modernità liquida” come una delle tante forme che questa società (moderna) può assumere.

Ma questo discorso vale in una certa misura per il problema dell’identità. Bauman fa notare, infatti, che l’identità – contrapponendo la dicotomia in uso “moderno-postmoderno” – nell’era moderna si trattava di una meta da raggiungere – una certezza –, un essenziale ed irrinunciabile elemento dell’esistenza umana; nell’era postmoderna, invece, l’identità sembra configurarsi non più come una meta da raggiungere e qualcosa di irrinunciabile, quanto piuttosto una «ricercata fuga da [quell’] incertezza» (Ibidem, trad. dall’inglese e italico miei).
Sintesi dell’approccio
Potremmo sintetizzare l’approccio baumaniano al problema dell’identità con delle parole chiave e un piccolo schema, che trovate qua sotto.

Diamo un breve commento alla figura sopra. Innanzitutto, ci troviamo di fronte a una contrapposizione diacronica tra due periodi discontinui della storia, perlomeno di retaggio occidentale. Questa contrapposizione non è scontata; sarebbe un errore assumere queste periodizzazioni come “fisse”, o “date una volta per tutte”, senza problematizzarle. Per questo è bene avvisare il lettore meno attento di questa implicita problematicità. Facciamo che “modernity” e “postmodernity” siano degli idealtipi, nel senso di Weber. Con questa precauzione possiamo discutere del concetto di identità ponendolo in relazione con queste due individualità storiche astratte, condensate nei “tipi puri”.
Ciò che troviamo al centro e a destra dell’immagine – e cioè le keywords che tracciano i contorni dell’identità in un contesto piuttosto che nell’altro – rappresenta un modello interpretativo (quasi) polare del problema identitario che vede nella metafora della liquidità (e, di converso, della solidità) una possibile soluzione epistemologica. La soluzione proposta da Bauman, secondo la mia interpretazione, può dare un valido contributo all’analisi del disagio postmoderno nella ricerca del “vero Io” (come se posse possibile conoscerlo; come se esistesse un “vero Io” – tutte ossessioni dell’individuo moderno…) da parte degli individui in questo contesto. Tuttavia, non si può fare a meno di notare che la proposta baumaniana al groviglio dell’identità non è sufficiente se la pensiamo come una soluzione individualistica e individualizzante. In qualche altro passo del brano, infatti, Bauman afferma che
«È compito dell’individuo trovare un’uscita dall’incertezza.»
(Ibidem, trad. dall’inglese mia)
E poche righe prima, riassumendo i concetti espressi in precedenza, chiosava come
«[L’] identità ha lo statuto ontologico di un progetto e di un postulato»
(Ibidem, trad. dall’inglese mia)
Questa concezione individuale, privata, e pro-gettuale dell’identità sembra trovarsi per Bauman in uno stato di constante instabilità nel contesto postmoderno; ma mentre la modernità sembrava fornire gli strumenti per la sua solidificazione, la postmodernità sembra offrire quelli per la sua liquefazione. Insomma, la postmodernità, secondo Bauman, ha gettato le premesse e il relativo corollario di tutta una serie di fenomeni di de-strutturazione dell’identità: sembra che nessun individuo voglia più aderire a un’identità data una volta per tutte; in questo regno sembra dominare la fluidità delle rappresentazioni e la non-datità di ogni caratterizzazione – proprio come un liquido che cambia forma a seconda del contenitore che lo ospita.
Bibliografia:
AA.VV., Sociologia, Einaudi scuola, Milano, 2015, pp. 270-271.