Portare alla visibilità pubblica la contraddizione della follia ed istituirla come un campo di tensioni legittimo (quindi regolamentato) all’interno di una società, è ciò che ha comportato la deistituzionalizzazione, ovvero il processo grazie al quale, con l’introduzione della legge del 13 maggio 1978 n°180 in tema di «Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori», vennero aboliti gli ospedali psichiatrici e istituiti gli attuali servizi di igiene mentale. In questione vi è la possibilità di affrontare e saper curare la sofferenza mentale, senza dispositivi di separazione e contenimento, quindi l’opportunità, per il diretto interessato (il cosiddetto “malato”), per il suo ambiente sociale e per la società nel suo insieme, di vivere la propria esperienza senza doverla nascondere.

Le istituzioni della violenza

Nel libro manifesto “L’istituzione negata”, pubblicato 1968, Franco Basaglia, psichiatra e neurologo italiano, formula il concetto di “istituzioni della violenza” così soprannominate perché “violenza ed esclusione sono giustificate (ed escogitate) da chi ha il coltello dalla parte del manico, nei confronti di chi è irrimediabilmente succube. Famiglia, scuola, fabbrica, università ed ospedale, sono istituzioni basate sulla divisione del lavoro. Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione fra chi ha il potere e chi non ne ha. Dal che si può ancora dedurre che la suddivisione dei ruoli è il rapporto di sopraffazione e di violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione, da parte del potere, del potere: la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra società. […] I gradi in cui questa violenza viene gestita, sono, tuttavia, diversi a seconda del bisogno di chi detiene il potere di velarla e mascherarla. Di qui nascono le diverse istituzioni che vanno da quella familiare, scolastica, a quelle carcerarie e manicomiali; la violenza e l’esclusione vengono a giustificarsi sul piano della necessità, come conseguenza le prime della educativa, le altre delle “colpa” e della “malattia“.

Cos’è la follia?

L’internato, anziché apparire come un malato, risulta il bersaglio di una violenza istituzionale: il livello di degradazione, oggettivazione, annientamento totale in cui versa, è il prodotto dell’azione distruttiva di un ambiente la cui finalità è la tutela dei sani nei confronti della follia e non viceversa. Per non accettare e alimentare tale circuito, è stato prima di tutto necessario rendersi conto che la psichiatria non è neutrale e che, esattamente come qualsiasi altro costrutto sociale, ha delle implicazioni importanti. Si potrebbe considerare il primo passo del processo di deistituzionalizzazione, la riformulazione del concetto stesso di “follia”. Secondo Basaglia, essa “è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società riconosce la follia come parte della ragione e la riduce alla ragione nel momento in cui esiste una scienza che si incarica di eliminarla. Il manicomio ha la sua ragione di essere, perché fa diventare razionale l’irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in un manicomio, smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come sciogliere questo nodo. Superare la follia istituzionale e riconoscere la follia là dove essa ha origine, come dire, nella vita“.

Alla scoperta di una nuova identità

Nel 1971, Basaglia assunse la direzione dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Trieste ed abolì qualsiasi trattamento prevedesse l’uso di pratiche lesive allo scopo di influenzare in “positivo” il comportamento del soggetto. In particolare, l’utilizzo della camicia di forza, della lobotomia (è un intervento di microchirurgia, consiste nel recidere le connessioni della corteccia prefrontale dell’encefalo) e della malarioterapia (è un trattamento terapeutico, consiste nel provocare febbre molto alta da infezione). Di particolare ispirazione furono le correnti di pensiero che si diffusero negli Stati Uniti a opera di sociologi come Erving Goffman e Thomas Szasz e, in Gran Bretagna, di psichiatri come Ronald David Laing e David Cooper. Nel 1972 a Triste, nacque “CLU: Cooperativa Sociale dei Lavoratori Uniti”, la prima in Europa. Il lavoro, all’interno della cooperativa, divenne parte integrante del processo riabilitativo poiché permise di scandire, definire e attraversare tempi e luoghi: ciò non sarebbe stato possibile all’interno delle camerate dell’istituto. Ad ostacolare il percorso riabilitativo non era la malattia in sé, o la disabilità, ma molto contribuiva lo stato giuridico e amministrativo del soggetto: un “ricoverato” non aveva il diritto (morale e giuridico) di essere considerato un membro della collettività. Per quanto apparente, ingannevole ed illusoria, i degenti acquisirono pian piano un’identità propria, quella del lavoratore. In quel momento si svelava perciò l’inganno dell’istituzione totale: la sofferenza, la violenza subita, il dolore, era diventato qualcos’altro all’interno della diagnosi, della malattia, del manicomio, sottraendo alle persone ogni cosa: diritti ed identità, sentimenti ed affetti, nome e cognome; la firma di un contratto rimetteva tutto in gioco: gli internati, finalmente persone, si riappropriavano della possibilità di scommettere sulla propria vita.

Giulia Marra

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