Il 22 febbraio 2020, seduta al tavolino di un bar in zona Lingotto, leggevo la notizia del primo caso di Corona virus riscontrato a Torino. Non potevo immaginare che si trattasse dell’inizio di un anno alquanto insolito, nel quale la mascherina sarebbe diventata un accessorio indispensabile – e obbligatorio – per tutti.

Se, durante i primi mesi di emergenza sanitaria, sono stati la paura, lo sconforto e il disorientamento a occupare la mia mente, a distanza di quasi un anno dall’inizio della pandemia questi sentimenti hanno lasciato spazio alle riflessioni e alle critiche, più o meno razionali e precise, sui fatti accaduti, sul loro significato e sulle loro conseguenze.

Virus nella storia

Sulla linea del tempo ci sono alcuni momenti che hanno segnato, in positivo o in negativo, la storia dell’uomo: anni in cui le temperature sono precipitate improvvisamente, anni di carestie, di epidemie che hanno falcidiato intere popolazioni, di guerre, ma anche anni di rivoluzioni, di manifestazioni e movimenti, di grandi scoperte e invenzioni. La pandemia in atto, quindi, potrebbe essere solamente un altro tra i tanti “grandi eventi” del passato – così come del futuro – e non è detto che rimarrà nella memoria collettiva così a lungo come crediamo.

Del resto, la stessa epidemia di spagnola non ha lasciato un’eredità molto pesante nella memoria storica come hanno fatto invece i conflitti bellici: in pochi ricordiamo il 1918 come l’anno d’inizio della spagnola, mentre quasi tutti lo associamo alla fine del primo conflitto mondiale.

Forse, la propensione a pensare che la ragione umana sia infallibile, se applicata con tenacia, e debba sempre e comunque trionfare, fa sì che rimanga poco di un virus nella memoria collettiva (Coetzee, 2007). Eppure, ignorare la portata di questo evento e non cogliere l’opportunità di addentrarsi nelle fratture che esso ha creato, rinunciare ai suoi spunti di riflessione, risulterebbe, a parer mio, un atteggiamento ugualmente semplicistico e superficiale, al pari del considerare l’arrivo del virus come l’evento più grande della storia dell’uomo.

Supponiamo, quindi, di guardare alla vicenda pandemica come a una narrazione in terza persona. Subito si pone la prima difficoltà, ovvero quella di individuare il protagonista; noi umani, infatti, sembriamo più personaggi secondari: non è forse il virus il vero protagonista, il personaggio attorno al quale è costruita l’intera storia, ciò che influenza le nostre decisioni e azioni? Poi, come in ogni narrazione, la trama si articola in tre momenti: situazione iniziale, svolgimento, conclusione.

Situazione iniziale: come eravamo

Definita come “postmodernità liquida” dal sociologo Bauman, prima della pandemia la nostra è una società in cui tutto è condizionato dall’economia, dove il consumismo non soddisfa le esigenze di benessere ma è solo fine a se stesso, dove tutto è merce. Una società nella quale, con l’ascesa della tecnica, l’uomo perde il suo ruolo centrale di produttore per diventare un consumatore privo di autonomia e capacità di giudizio, vergognandosi di sé davanti alla perfezione delle macchine (Anders 2007a, p. 57).

E molti studiosi, andando oltre, teorizzano già un nuovo stato della società, quello gassoso: scompaiono i rapporti sociali, i valori e le ideologie, lasciando spazio all’isolamento, all’incertezza, alla disinformazione; un neocapitalismo a servizio della tecnologia che vaporizza ogni componente umana.

Una rivoluzione digitale dalla quale non sono gli uomini a uscirne vittoriosi, né tantomeno la natura. Una transizione che avviene in modo, come direbbe Jullien, silenzioso (Jullien 2010, p. 22); un mutamento che opera da sé, senza avvisare, senza dare alcun allarme, imponendo il risultato solo alla fine.

Svolgimento: il naufragio come salvezza

Il virus – e tutte le misure prese per contenerlo – non mette quindi in atto un processo di cambiamento, ma di accelerazione. Come direbbe Anders, vediamo senza andare a vedere sul posto, percepiamo senza esserci veramente: il pubblico di massa che prima si trovava unito (nei cinema, nei teatri, nelle piazze), condividendo emozioni, subisce un ulteriore appiattimento emozionale, aspettando muto che sia il mondo là fuori a entrare dentro casa sua, a mostrarsi attraverso video e immagini condivisibili solo su piattaforme digitali.

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Siamo costretti a perdere la “libertà di avvertire la perdita della nostra libertà” (Anders 2007b, p. 234), o, forse, è la nostra stessa passione a non mirare alla libertà, ma più a uno stato di tranquillità (Donaggio, 2016).

Con l’arrivo del virus sono stata costretta a insegnare l’uso dei social e delle videochiamate a mia nonna, a rinunciare alle uscite con gli amici, a mantenere le distanze dagli altri, ad acquistare online anche ciò che non avevo mai pensato di acquistare, a passeggiare per le vie sconosciute del mio quartiere. Ho guardato ridefinire i confini nazionali, così come quelli individuali; ho visto rielaborare il concetto di spazio pubblico e quello di spazio privato; ho osservato molti di noi trasformarsi in sentinelle attente a ogni singolo movimento di persone, nelle strade così come negli appartamenti dei vicini.

Potere e gestione della pandemia da virus

Naturale è poi risultata la riflessione sul concetto di potere; appare evidente la differenza profonda che intercorre tra il Paese nel quale viviamo e uno Stato come quello cinese – o coreano o giapponese – dove la gestione della pandemia avviene attraverso lo scambio continuo di dati strettamente personali che hanno rendono possibile tracciare e isolare le persone infette o potenzialmente infette. E quindi, sovrano è oggi chi possiede i dati? Altrettanto interessante è la riflessione sulle forme di coinvolgimento.

Del resto, la pandemia è un evento dal quale nessuno può sottrarsi. Come scrive Blumenberg, “al pericolo si può sfuggire in due modi: o evitandolo, stando lontani da esso, oppure, se ciò risulta impossibile, ritornando al più presto dal luogo dell’insicurezza a quello della sicurezza, stabilendo dei punti simbolici di protezione all’interno di un ambiente infido ed ostile”.

Ed ecco che proprio la casa sembra diventa quel punto di protezione, almeno fino a quando appare evidente che non esiste più nessun luogo davvero sicuro. Blumenberg parla della “caduta della differenza tra terra e mare”: nessuno di noi può più essere un mero spettatore, ma siamo tutti costretti a diventare attori, a metterci in gioco, a rischiare il naufragio, perché “è la terra stessa che vacilla e spalanca i propri abissi” (Blumenberg, 2001).

Un cambio di abitudini: coesistere col virus

Sia le azioni – o le non azioni – di coloro i quali guardano alla limitazione dell’autonomia come scelta individuale perché la società sopravviva, sia quelle di coloro i quali concepiscono il lockdown come imposizione del potere dell’autorità che stabilisce cosa la società può fare e cosa non può fare, definiscono delle conseguenze. Partecipiamo tutti, in qualche modo, agli eventi. Certo, ognuno risponde con comportamenti differenti: c’è chi si sente superiore al virus, chi pensa sia tutto un complotto, chi segue scrupolosamente le regole, talvolta in maniera ossessiva.

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Ma l’arrivo della pandemia ha cambiato le abitudini di tutti e messo in discussione la nostra visione del mondo, in un modo o nell’altro. Perciò, possiamo definire l’epidemia di Covid come un trauma, intendendo un brusco sconvolgimento, un’emozione molto forte, intensa, che cambia le carte sulla nostra tavola della vita; come apocalisse, uno scoprimento, una rivelazione; come crisi, caratterizzata da una limitata durata. La terminologia utilizzabile è vasta.

Tuttavia, se da questo mutamento repentino della nostra vita vogliamo anche trarre l’opportunità di un cambiamento più radicale di tutto ciò che prima andava avanti senza funzionare bene – così come di tutto ciò che funzionava bene ma non andava avanti – diventano imprescindibili una buona comprensione degli errori passati, un’accurata definizione della situazione attuale e una precisa programmazione degli obbiettivi futuri.

Conclusione: dove vogliamo andare?

La “ripartenza” è diventata l’obbiettivo più alto al quale puntare, un sogno, uno scopo. Eppure, credo che prima di intraprendere un viaggio bisognerebbe quanto meno farsi un’idea di dove si voglia andare. E noi dove vogliamo andare? La pandemia non ci ha colti solo impreparati; ha anche evidenziato la fragilità del nostro sistema sanitario, l’instabilità del nostro governo, la vulnerabilità della nostra economia. Quanto piacevole può essere un viaggio che riparte da qui?

Ecco allora che quel “nulla” che siamo costretti a fare può forse diventare qualcosa. Certo, non possiamo salvare vite umane se non siamo medici e non possiamo prendere decisioni sulla gestione pandemica se non siamo politici. Ma possiamo pensare. E pensare può diventare un’attività estremamente utile durante questa condizione particolare nella quale ci troviamo, specialmente se a pensare siamo in tanti. E, in particolare, possiamo ri-pensare noi stessi e la nostra società, guardando in modo critico e soprattutto costruttivo a quello che stiamo vivendo e anche a quello che abbiamo vissuto fino all’arrivo del virus, dando per scontato e immutabile il funzionamento di un sistema che faceva acqua da tutte le parti.

In questo modo, arginato il dolore, affrontata la paura, calmata la rabbia, possiamo unire i nostri saperi intellettuali e le nostre capacità pratiche per trasformarli nel carburante necessario per la famosa ripartenza che tutti agogniamo.

Ovviamente, sono consapevole che riflessioni individuali e collettive di questo tipo non sono facili e non sono immediate. Tuttavia, ognuno di noi ha qualcosa da condividere, uno strumento utile: propensione al cambiamento, entusiasmo, bisogno di riscatto, impulsività, razionalità, passione, amore per il proprio Paese, senso critico, bisogno di riscatto. Ognuno può essere un “tassello pensante” di questa nuova, grande rivoluzione.

Pensare un futuro diverso… coesistendo coi virus

Per inventare un futuro diverso dagli oscuri scenari che si prospettano e dai quali tutti cerchiamo di prendere le distanze, qualcosa deve inevitabilmente cambiare.

Il coronavirus racconta un nuovo mondo

Dobbiamo capire che vi è interdipendenza tra salute umana e tutela della natura, smettendo di continuare a lavorare contro il contesto ambientale nell’ottica di un guadagno immediato e valorizzando maggiormente il rapporto uomo-natura; comprendere la fatica del sistema sanitario, per anni mal finanziato e sotto stimato; ragionare sull’importanza dei rapporti umani, della condivisione e del senso di comunità in un mondo sempre più individualista; cogliere le opportunità; riflettere sulle nostre reazioni alla privazione di libertà, una libertà che da sempre diamo per scontata, ma che non è mai stata così scontata per molte altre persone; pensare all’evidenza della nostra natura umana di fronte all’invasione tecnologica; mettere in discussione ciò che siamo e facciamo, agendo da individui pensanti e cittadini attivi; analizzare la condizione d’indifferenza di studenti e docenti, nonché il silenzio dell’università e delle istituzioni politiche su una delle tematiche alla base di ogni buona società: l’istruzione.

Non solo, è anche necessario interpellare la generazione che dovrà pagare il debito che al giorno d’oggi si sta contraendo.

Occorre ripensare lo spazio pubblico

Occorre poi ripensare lo spazio pubblico, poiché è la pandemia stessa a creare una nuova lente per guardarlo (Honey-Rosés et al., 2020, p. 9). Se “le politiche economiche neoliberali hanno prodotto un’impennata nella privatizzazione dello spazio pubblico, spesso apparentemente per uso “pubblico”, ma come luoghi di consumo” (ibidem), l’arrivo del Covid-19 potrebbe costituire un buon punto di partenza per riconsiderare i singoli spazi come elementi di una rete di spazi pubblici aventi specifiche caratteristiche. Caratteristiche non trascurabili, strettamente connesse ai (potenziali) fruitori di quegli spazi. L’occasione, dunque, per porre fine a un’invasione commerciale e a una privatizzazione costante dello spazio pubblico.

Dobbiamo necessariamente imparare, quindi, da questa esperienza. E forse, sarà proprio la distanza tra le nostre aspirazioni e i nostri desideri sul futuro e le prospettive reali che si prevedono a darci la spinta necessaria per smettere di “fare nulla” per salvare il Paese e iniziare a “pensare qualcosa” per cambiarlo.

Giulia Candida

Bibliografia

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