All’interno della nostra società, i moti affettivi che prevalgono e determinano il comportamento sociale degli individui sono in relazione con esigenze economiche e sociali alle quale ci si adatta anche dal punto di vista psichico ed è per questo che il funzionamento del sistema sociale influenza il benessere interiore delle persone. A questo proposito possiamo parlare di inconscio collettivo. Vediamolo in dettaglio.
Secondo Fromm, la salute psichica dell’individuo è speculare alla salute psichica della società, sono due istanze che non possono essere separate. Inoltre, la salute psichica ruota attorno al problema fondamentale dell’alienazione da noi stessi, l’alienazione dai nostri sentimenti, dagli altri esseri umani e dalla natura, o, detto altrimenti, l’alienazione dal mondo dentro e fuori di noi.
Inconscio collettivo e la mancanza di contatti
Uno degli aspetti più pericolosi della nostra società contemporanea è che non abbiamo più alcun rapporto con i nostri sentimenti, con quello che proviamo veramente e stiamo perdendo sempre più ogni contatto con i nostri simili e con la natura, restando in rapporto esclusivamente con quel frammento di mondo che noi stessi abbiamo creato[1].
Si realizza la “perdita di ogni contatto con la realtà” tranne quella, prodotta dall’uomo, fatta di artefatti e routine, perdendo di vista il fatto che questa produzione è strettamente collegata e deriva da alcune istanze fondamentali dell’esistenza umana che risiedono più in profondità, nell’inconscio.
Sono proprio le trame invisibili tracciate dai meccanismi inconsci a far si che certe dinamiche si ripetano nel corso del tempo, non solo a livello soggettivo, ma anche a livello collettivo.
La componente inconscia entra in gioco in maniera importante anche nella configurazione dell’organizzazione sociale ed è per questo che la sociologia, in particolare quella clinica, non può trascurare questo aspetto dell’essere umano.
L’individuo tra inconscio personale e inconscio collettivo
Per Freud l’inconscio è di natura personale, mentre per Jung lo è solo un certo strato superficiale di esso, il quale coesiste con uno strato più profondo che non deriva da esperienze ed acquisizioni personali ma è innato ed è chiamato inconscio collettivo.
L’inconscio collettivo ha contenuti e comportamenti che sono gli stessi dappertutto e per tutti gli individui, costituisce un substrato psichico comune di natura soprapersona le presente in ciascuno e può essere definito come condivisione, appunto inconscia, di saperi e concetti da parte della collettività nel corso delle generazioni, come somma di soggettività individuali.
Mentre l’inconscio personale è formato essenzialmente da contenuti che sono stati un tempo consci ma sono poi scomparsi dalla coscienza perché dimenticati o rimossi, i contenuti dell’inconscio collettivo non sono mai stati nella coscienza, perciò non sono mai stati acquisiti individualmente e devono la loro esistenza esclusivamente all’eredità.
Cosa sono gli archetipi
I contenuti dell’inconscio collettivo si manifestano attraverso gli archetipi, modelli ancestrali di pensiero che, attraversando i millenni della storia, ricorrono sia nelle espressioni culturali che nelle paure ed aspettative umane. Questi archetipi ritornano nelle varie civiltà antiche e moderne, facendo esprimere l’inconscio collettivo e questo spiega perché ci sono analogie strutturali tra culture diverse.
Ci sono archetipi che ricorrono, ad esempio, in miti, favole e leggende di popolazioni che non si sono mai incontrate, per questo ci sono sempre elementi comuni tra diverse individualità e gruppi, come l’archetipo della madre, del padre, la vita e la morte, la perdita e la speranza, la guerra e la pace, il buio e la luce. Si tratta di moduli di pensiero condiviso che producono ansie, paure, aspettative, gioie eccetera.
Inconscio collettivo tra narrazioni e miti
Il mito ha una funzione importante, senza di esso un uomo non ha radici, non ha un vero rapporto né col passato e con i suoi antenati che continuano in lui, né con la società umana del suo tempo[2].
Ci sono narrazioni del mondo, di dei, di eroi che hanno a che fare con il rapporto con gli archetipi che ricompaiono sempre e rappresentano le strutture portanti della nostra società e di ogni esperienza individuale. Essi contengono sia aspetti positivi che aspetti negativi, immagini eterne dell’inconscio che valgono ovunque e vengono filtrate dall’inconscio collettivo.
La vita dell’inconscio collettivo si palesa anche nell’interiorità delle rappresentazioni archetipiche del dogma religioso e fluisce come una corrente bene imbrigliata nel simbolismo e nel rituale fin dagli antichi misteri che affondano le loro radici nella nebulosità del neolitico. Le forme dell’inconscio furono sempre espresse mediante immagini protettrici e guaritrici e in tal modo ricacciate nello spazio cosmico ed ultrapsichico, con il progredire delle varie forme culturali furono man mano sbriciolate nelle varie rappresentazioni istituzionali, comprese quelle politiche e sociali.
Le immagini archetipiche sono a priori così cariche di significato che non ci si chiede mai cosa davvero possano voler dire, quando l’uomo inizia a rifletterci sopra in realtà lo fa con la miopia della ragione, per questo ogni tanto muoiono gli dei, perché a un tratto si scopre che non significano nulla. La povertà spirituale contemporanea è conseguenza della mancanza di simboli, i quali vanno perduti quando non si trova loro un nesso coerente con la coscienza.
L’unione tra ontogenesi e filogenesi
L’inconscio collettivo non è un sistema personale incapsulato, è obiettività aperta al mondo, qui l’io è talmente collegato col mondo da dimenticare chi è in realtà, è “perduto in se stesso” e se la coscienza potesse vederlo, vedrebbe il mondo. Ecco perché dobbiamo sapere chi siamo. Infatti, basta che l’inconscio ci sfiori perché noi diventiamo inconsci di noi stessi e c’è fusione. Questo è il pericolo primigenio, dimenticarsi chi siamo e fare cose nelle quali non ci riconosciamo. Per questo l’umanità si è sempre sforzata di “consolidare la coscienza” mediante riti, rappresentazioni collettive, dogmi eretti come dighe contro i pericoli dell’inconscio. Per questo il rito primitivo consiste in esorcismo, malocchi, purificazioni[3].
Nel nostro mondo di normali nevrotici le cose più dolorose per l’uomo sono quelle che dovrebbero essere le più naturali, come le relazioni interpersonali. Le condizioni socio-economiche e culturali producono sempre più scollamento mentale tra l’uomo e il suo esistere, con un disorientamento e una socialità atrofizzata, come se si fosse costantemente in balìa di una corrente di pensieri, molte volte inconsci[4].
Tra psicologia ed etnografia
Jung ha il merito di far incontrare la psicologia con l’etnografia, che si occupa di studiare culture ed etnie e con la mitologia, che è più antica. La psicologia, perciò, va oltre la studio della mente e si contamina con altri campi di sapere per spiegare manifestazioni psico-sociali e storiche. In questo percorso, il concetto di inconscio collettivo risulta dall’unione tra l’ontogenesi, cioè la prospettiva individuale, la storia di ognuno con la filogenesi, cioè la storia di una specie, quella umana, nel suo complesso. Secondo Jung, dal momento che molte situazioni come patologie, comportamenti irrazionali e via dicendo si reiterano nella storia culturale e sociale risultando identiche nonostante si manifestino in luoghi ed epoche diverse, poiché alcuni elementi irrazionali, storici o culturali ritornano in maniera quasi identica, si può affermare che esiste un sapere condiviso in modo inconscio dagli uomini e dalle donne attraverso le generazioni.
Poiché alcune dinamiche psico-sociali, psico-culturali o psico-politiche ritornano, anche attraverso la vasta produzione culturale, senza continuità di contatto in quanto accadono in epoche o posti diversi, c’è una trasmissione inconscia attraverso le generazioni. Ciò non significa che l’inconscio individuale come vissuto personale e biografico che determina la psiche di una persona non sia valido, ma accanto ad esso esiste anche l’inconscio collettivo di ampio raggio, entro il quale si muovono i modelli individuali.(Saudino, 2021)[5].
Dall’ inconscio collettivo all’inconscio sociale
Secondo Walter Benjamin l’inconscio collettivo riguarda il trauma degli individui come società, un trauma che è radicato nel sistema educativo patriarcale dell’infanzia e nell’esperienza storica della violenza della guerra e che ha alla sua base l’esperienza del lutto e della morte.
Benjamin realizza un collegamento importante con la sociologia e su questa sua definizione, Mario Pezzella (2021) introduce il concetto di inconscio sociale, con il quale si intende un’azione inconsapevole che deriva dall’incrocio di una situazione personale, in particolare di tipo traumatico, come nelle situazioni di crisi, con una situazione collettiva. Probabilmente non esiste essere umano che non abbia subito esperienze personali sconvolgenti o dolorose, sicuramente si tratta della grande maggioranza delle persone, anche perché nella nostra società, in particolare, l’infanzia è stato un periodo di vita devastato nel corso di molti anni di storia.
Da trauma a TRAUMA
Di conseguenza, un trauma personale rende particolarmente esposti a un trauma collettivo come una guerra, una pandemia, una carestia. Lo shock traumatico produce immobilità e rigidità tanto nella dimensione soggettiva quanto nella sfera collettiva, quando dei momenti di crisi particolari producono una sorta di paralisi della volontà e della capacità di reazione. Un secondo aspetto di questo fenomeno riguarda la persona che si trova in una condizione di paura, terrore, immobilità che diventa esposta a compensarla con delle immagini euforiche.
Un esempio è stato il nazismo che, in un momento in cui la massa era esposta a quella condizione di passività, aveva proposto un’immagine (apparentemente) affascinante in grado di compensare quello stato di umiliazione, abbattimento e depressione che a livello collettivo si stava vivendo. Quindi, quanto più c’è uno stato depressivo collettivo, tanto più le persone che versano in questo stato sono disposte a seguire delle immagini compensatorie e questo meccanismo è alla base di tutte le varie manifestazioni più o meno estreme che ne possono derivare (manifestazioni che possono essere anche diverse e, quindi, non sempre paragonabili tra loro).
L’infanzia è decisiva
Nella vita dell’uomo, l’infanzia è decisiva. Ad esempio, vivere in una società patriarcale predispone gli adulti alla passività, perché un bambino maltrattato è un futuro suddito. C’è poi una catena generazionale per cui chi ha assorbito una cosa, soprattutto traumatica, la fa subire all’altro e questo si perpetua da una generazione all’altra. Questo è l’inconscio sociale, che comprende l’inconscio personale della persona singola sommata a questa trasmissione collettiva che si realizza nel corso del tempo.
I ruoli tra chi è stato vittima e carnefice si possono invertire proprio per i meccanismi di reazione e di compensazione, che sono difficilissimi da disinnescare. Il loro smascheramento ha un potenziale di rottura di questo circolo ma è fondamentale passare dall’inconsapevolezza alla consapevolezza. Tuttavia, questo, pur rappresentando un grande passaggio, non è sufficiente. L’individuo consapevole, anche se non può agire nell’immediato, a differenza di quelli traumatizzati ed inconsapevoli riesce comunque, come primo passo di emancipazione dal trauma, a sviluppare delle forme di resistenza. Ci sono vari livelli di traumaticità, perciò il percorso è davvero molto lungo, ad esempio il trauma di guerra è molto violento e spaventoso, si ripercuote nei sogni e può condizionare anche fenomeni patologici, in questi casi l’elaborazione è prolungata e faticosa.
La drammaticità del nostro tempo
In realtà, la guerra è proprio un trauma fondativo della nostra civiltà, infatti, nel corso degli ultimi due secoli due grandi guerre hanno devastato e determinato l’inconscio collettivo e sociale di due o tre generazioni.
Quando un trauma viene rimosso e, quindi, (apparentemente) dimenticato, l’essere umano ci torna sopra costantemente, ad esempio anche attraverso i sogni, gli incubi, le sensazioni angoscianti perché non essendo stato elaborato rimane nella memoria sotto forma di accadimento oggettivo, ma non se ne ha la consapevolezza. Effettivamente, l’inconscio lavora per far rivivere quella situazione dal punto di vista emotivo piuttosto che da quello razionale, che servirebbe a poco.
Soli
Il problema risiede nel fatto che si deve rivivere quell’emozione che non ci si è concessi di vivere nel momento in cui si era verificata, perché era troppo dura da sostenere, ed è lì che si inizia a lavorare sulla possibilità di uscire dal trauma. In qualsiasi tipo di trauma, perciò, inizialmente ci si nega la possibilità di vivere le emozioni dolorose perché sono troppo forti e nella nostra società, a differenza delle società tradizionali, non ci sono gli strumenti rituali e culturali per elaborare il lutto, il dolore, la morte e così via perché sono stati distrutti dall’organizzazione capitalistica.
In questo risiede la drammaticità del nostro tempo, perché quando poi si verificano degli eventi di questo tipo, l’individuo si trova necessariamente a doverli affrontare da solo e non sempre riesce ad elaborarli in maniera costruttiva[6].
Lo stretto intreccio tra reale e immaginario nella vita sociale
L’inconscio sociale si distingue dall’inconscio collettivo di Jung, nonostante ci siano punti di contatto ed affinità. Esso appartiene all’esistenza sociale di un collettivo storicamente determinato, diviso tra il modo in cui rappresenta se stesso e l’immaginario da cui è inconsciamente posseduto.
Nel cosiddetto «inconscio sociale» ci si trova di fronte a un contagio psichico di massa, nel quale le onde emozionali possono andare nel senso dell’esaltazione (come nelle folle totalitarie) o in quello dell’angoscia e della depressione (come di fronte al diffondersi di un’epidemia o al terrore nei confronti di un indecifrabile nemico). I due stati d’animo possono anche alternarsi e succedersi rapidamente l’uno con l’altro.
Esiste, poi, un inconscio sociale meno “clamoroso”, più inavvertito e amalgamato nelle pieghe della vita quotidiana e ordinaria. L’inconscio sociale può essere considerato anche dalla prospettiva strettamente ontologica ed esistenziale di «stato d’animo collettivo» o «tonalità affettiva dominante» come orizzonte di comprensione preliminare entro cui si dispongono le articolazioni possibili dei linguaggi di un’epoca.
Secondo Benjamin la nostra è un’epoca del capitale e il suo fenomeno originante è la merce, che è insieme l’elemento determinante dell’economia e del regime di desiderio e di affettività che intorno ad essa si costituisce. In questo senso, si può usare il concetto di tonalità affettiva e di esistenziale storico come orizzonte e pulsazione della quotidianità.[7]
Paradossi e ottusità
Paradossale è il fatto che la gente agisce pensando al proprio interesse personale ma contemporaneamente è condizionata dagli istinti della massa, in particolare, quando si rimpiange una situazione di stabilità sociale, si diventa ottusi di fronte alla minaccia effettiva ed incapaci di approntare contromisure concrete. Così, illudendosi di difendere il proprio status individuale, ci si getta nel risentimento primordiale di massa, in cui l’individualità in quanto tale è destinata a sparire.
L’ottusità, per Benjamin, è l’effetto della rimozione radicale della causa del proprio dolore, che rende inadeguata ogni risposta al pericolo ed appartiene alla struttura profonda dell’epoca di riferimento. L’ottusità è una disposizione di spirito, uno stato d’animo, una tonalità affettiva, così come lo sono la violenza, il risentimento, l’umiliazione… in questi casi essi sono ricoperti da un velo spesso di ignoranza e inconsapevolezza che li porta ad agire in modo massificato e primordiale, spostando il reale nell’immaginario e facendo sì che il singolo si immerga nell’odio distorto del collettivo.
Il comportamento delle masse è caratterizzato da una «pulsione di massa», che spinge gli individui ad abbandonare le proprie caratteristiche personali e una «pulsione della personalità», responsabile dell’allontanamento di ciascuno dagli altri. La massa oscilla tra il desiderio di espandersi a dismisura e la paura di disintegrarsi, come accade negli episodi di panico in cui si infrange la solidarietà e si cerca di mettersi in salvo[8].
Ogni periodo storico è caratterizzato da una tonalità affettiva dominate, quella della nostra epoca sembra essere proprio l’ottusità, la quale, portando il singolo a sottomettersi agli impulsi collettivi di massa, realizza una regressione arcaica della coscienza che porta ad accettare cose altrimenti inaccettabili, a causa dell’inebriamento irrazionale e la soppressione dell’affettività. L’inconscio sociale si caratterizza, dunque, per il ritorno degli strati più profondi della storia dalla rimozione in cui giacevano latenti.[9]
Federica Ucci
Riferimenti bibliografici e sitografici
- E. Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano, 1981.
- E. Fromm, I cosiddetti sani. La patologia della normalità, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1996.
- C. G. Jung, Il libro rosso, Liber Novus, Edizione studio, a cura e con introduzione di S. Shamdasani, Bollati Boringhieri, 2012.
- C. G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Biblioteca Bollati-Boringhieri, 1934.
- M. Pezzella, Altraparola, L’Inconscio sociale, n.3, Edizioni Efesto, Roma, 2020.
[1] E. Fromm, I cosiddetti sani. La patologia della normalità, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1996.
[2] C. G. Jung, Il libro rosso, Liber Novus, Edizione studio, a cura e con introduzione di S. Shamdasani, Bollati Boringhieri, 2012.
[3] C. G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Biblioteca Bollati-Boringhieri, 1934.
[4] A. Zino, Effe. La faglia umana in Altraparola, L’Inconscio Sociale, n.3 –Maggio 2020, Edizioni Efesto,Roma.
[5] M. Saudino, C. J. Jung, L’inconscio collettivo, gli archetipi e i tipi psicologici, Lezione presente sul canale youtube BarbaSophia, 2021.
[6] Per approfondire si consiglia la visione del video CHE COS’È L’INCONSCIO SOCIALE? – YouTube
[7] Altraparola, L’Inconscio Sociale, n.3 –Maggio 2020, Edizioni Efesto,Roma.
[8] E. Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano, 1981.
[9] M. Pezzella, La distrazione e l’ebbrezza. Note a partire da A senso unico di Walter Benjamin, in Altraparola, 2020, Op. Cit.