Tra i cinque sensi, la vista è fondamentale per l’autonomia, per le relazioni personali e sociali dell’individuo. È attraverso la vista che l’essere umano può procurarsi le informazioni necessarie per i suoi comportamenti quotidiani. L’organo preposto allo sguardo è l’occhio. Non tutti sanno però che la funzione visiva nel suo complesso non è svolta soltanto dall’occhio ma anche dal cervello; queste due componenti, infatti, lavorano insieme per realizzare le informazioni visive. Come affermava l’informatico statunitense Nicholas Negroponte, non si è in grado di gestire un solo senso per volta ma lo si fa attraverso una relazione con gli altri sensi. Ogni volta che si guarda un oggetto, questi evoca un’immagine mentale; se nella nostra mente ciò non accade, la vista e il cervello cooperano per cercare di assimilare le caratteristiche di quell’oggetto ad altri oggetti della nostra esperienza. Così lo si odora, lo si tocca, si verifica se emette qualche suono, proprio come fanno i bambini per esplorare il mondo. Vedendo una foto si evocano immagini mentali del passato precedentemente registrate; si vede con lo sguardo ma nel contempo si aprono altre sfere di esperienza. Le immagini statiche o dinamiche suscitano delle emozioni e ampliano il senso della memoria. Ogni immagine nasce con una fotografia, un disegno come qualcosa di statico, un frammento di qualcosa che è avvenuto in un tempo differente da dove ci si trova nel presente.

Il ruolo degli oggetti

Nel 1878 non c’era né il cinema né la videocamera; ogni movimento veniva creato da un insieme di immagini statiche-loop, un cortometraggio proiettato in maniera ciclica, una ripetizione di un segmento che dà l’illusione del movimento; più frame si inseriscono al secondo e più ci si avvicina al movimento reale. Il loop consentiva di prendere trenta foto e metterle in ripetizione due, tre volte fino a ottenere un filmato della durata di due minuti. L’esperienza del mondo quindi passa attraverso gli oggetti, attraverso la loro interpretazione; l’oggetto è delegato dall’uomo a fare qualcosa al suo posto e consente particolari azioni e relazioni. Lo psicologo cognitivista James Gibson sottolinea come la percezione visiva sia basata sulla raccolta di informazioni ottiche e la particolare importanza che a questa viene data in quanto sottende la contemporanea attività di registrazione.

Le interfacce sensoriali

L’uomo progetta, costruisce e usa strumenti e artefatti per modellare e interagire con l’ambiente che lo circonda. Il modo in cui è possibile interagire con gli artefatti, siano essi tecnologici o cognitivi, è l’interfaccia. Ogni interfaccia deve essere progettata tenendo presente i limiti fisici, fisiologici e antropometrici dell’uomo. Una buona interfaccia deve rendere visibili le operazione che con essa si possono compiere e il modo in cui compierle. A tal proposito Donald Norman parla di modelli concettuali, che secondo la sua definizione “costituiscono parte di un concetto importante nella progettazione: i modelli mentali, i modelli che le persone hanno di sé, degli altri, dell’ambiente e delle cose con le quali interagiscono”. Ancora Jef Raskin afferma che “una funzionalità dell’interfaccia è visibile se è accessibile a un organo di senso umano (di norma gli occhi, anche se la nostra discussione vale anche per altri organi di senso) oppure se è stata percepita abbastanza di recente da non essere ancora svanita dalla memoria a breve termine”. Progettare un artefatto significa analizzare come gli utenti lo useranno, ed è per questo inutile nascondere le funzioni che andrebbero usate. Le funzionalità che rispondono a queste caratteristiche vengono chiamate affordance: “le affordance forniscono indizi validi su come le cose debbano essere usate”. (Norman)

Nuove capacità

Grazie ad artefatti tecnologici sempre più piccoli e miniaturizzati, potenti, “dotati di intelligenza” e di una certa autonomia di funzionamento, la stessa natura organica dell’uomo viene messa in discussione. Gli artefatti, da oggetti esterni all’uomo e distinguibili dal suo corpo, dai suoi sensi e dalla sua mente, diventano in tal modo sue estensioni materiali e immateriali che trasformano, accrescono e amplificano le sue capacità sensoriali e mentali, la sua percezione della realtà. Questo principio di estensione produce un’interconnessione profonda tra umano e tecnologico e stimola un rinnovato avvicinamento degli artefatti al corpo. Ogni artefatto, come afferma Bruno Latour, assume un suo senso se immerso nel contesto culturale di riferimento e risponde a determinati bisogni.

La tecnologia dentro di noi

I media secondo Marshall McLuhan sono delle estensioni dei sensi dell’uomo e ciascun mezzo, nel momento in cui estende un senso, comporta un vero e proprio assopimento degli altri, alterando così l’equilibrio sensoriale. Il concetto stesso di “esteriorizzazione” è al centro del rapporto uomo-tecnologia e nel corso dei secoli ha animato molteplici riflessioni. Lo sviluppo di tecniche sempre più sofisticate in grado di rispondere ai bisogni dell’uomo e il progressivo perfezionamento di “organi” posti al di fuori dell’essere umano, per migliorare le capacità dell’individuo di adattamento all’ambiente, si accompagna a un continuo processo di assimilazione delle tecnologie attraverso la socializzazione. Ma come può cambiare l’interazione con il mondo dal momento che la tecnologia non è più fuori di noi ma dentro? In tale prospettiva il corpo diventa il contesto sociale/culturale nel quale si è inseriti; ne consegue che tutti gli oggetti sono interfacce vale a dire porte di accesso per interagire con il mondo. Il confine tra naturale ed artificiale si fa sempre più labile. L’artificiale assume sempre più spesso caratteristiche che fino a oggi erano considerate distinte dall’uomo. La tecnologia si avvicina a tal punto all’uomo, alle sue capacità sensoriali e cognitive da diventare invisibile, cambiando la natura del rapporto tra uomo e artefatti.

Emanuela Ferrara

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