La sociologia, come si è sostenuto a più riprese, è sempre una disciplina in dialogo. Esercita una funzione aggregante, non solo tra punti di vista diversi ma anche tra ricercatori di ogni tipo. Bisogna tuttavia ricordare il suo rapporto particolare con la filosofia: molti suoi autori classici (es. Marx, Hegel) sono proprio dei filosofi. A questo proposito, è parso utile cercare di comprendere le nuove commistioni tra discipline per analizzare il contemporaneo, e l’attenzione è andata alla pop filosofia. Di cosa si tratta?

Per questa occasione è stato molto interessante fare due chiacchiere con il prof. Tommaso Ariemma, docente di Estetica e sociologia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce. È autore di numerosi volumi, tra i quali La filosofia spiegata con le serie tv (2017), Filosofia degli anni ’80 (2019), L’Occidente messo a nudo (2019) e Platone showrunner (2022).

Pop filosofia: di cosa si tratta?

  • Professore Lei ha avuto sempre un forte interesse verso teoria dei media, dell’arte e della cultura pop. Ha contribuito in modo significativo allo sviluppo della pop filosofia in Italia, soprattutto dal punto di vista della didattica della filosofia. Può spiegarci cosa è la pop filosofia?

Tommaso Ariemma – “La pop filosofia è una corrente filosofica contemporanea che utilizza strategicamente i fenomeni della cultura pop per fare filosofia. Il fenomeno pop (serie tv, videogioco, oggetto di design, social network, pratica corporea etc.) non è pensato “a distanza”, come un semplice oggetto su cui applicare una teoria fabbricata altrove, ma è piuttosto un amico della riflessione filosofica, nella misura in cui la provoca a pensare altro, fuori dagli schemi. La prossimità al fenomeno pop rende un testo di pop filosofia sperimentale e popolare, lontano da quell’accademismo che ha ridotto spesso la filosofia a un discorso tecnico, standardizzato, senza sostanza o innovazione”.

In Italia, la pop filosofia ha dato vita a numerose ricerche a partire da fenomeni pop molto diversi tra loro (dalla chirurgia estetica al bodybuilding, dai social network alle strategie degli influencer, dalle serie tv ai videogiochi) e a un festival culturale unico nel suo genere nelle splendide Marche: Popsophia, diretto dalla filosofa Lucrezia Ercoli, che ha ormai superato abbondantemente i dieci anni di attività. La pop filosofia domina talmente tanto la scena culturale nel nostro paese che l’espressione, spesso con intenti denigratori, “filosofo pop” o “pop filosofo” viene attribuita praticamente a chiunque abbia un qualche successo mediatico facendo filosofia o semplicemente divulgazione filosofica, generando così certamente una grande confusione, ma rivelando al tempo stesso un’influenza con ben pochi rivali nel dibattito pubblico”.

Pop filosofia e sociologia dell’arte

  • Oltre a essere docente di Estetica Lei insegna anche Sociologia dell’arte. Quanto, secondo Lei, è importante la commistione delle due discipline per comprendere la contemporaneità? E come descriverebbe questa branca delle scienze sociali a chi si avvicina per la prima volta non solo alla sociologia in generale ma proprio agli studi sull’arte?

T.A. – “Per molto tempo non è stato possibile distinguere la sociologia dell’arte dall’estetica: solo nella seconda metà del Novecento la sociologia dell’arte si è affermata come disciplina autonoma. Entrambe si occupano dell’opera d’arte e – nella mia prospettiva –  non è possibile pensare quest’ultima lontana dalla società: l’opera d’arte resta, infatti, un oggetto sociale”.

“Insegnando entrambe le discipline, considero pertanto la sociologia dell’arte come applicazione sul campo delle teorie estetiche: queste ultime, a loro volta, possono ricevere conferma o meno, e pertanto vengono modificate dalla ricerca empirica. La sociologia dell’arte, pertanto, si rivela uno strumento fondamentale per la riflessione sull’arte che non vuole rimanere astratta o semplicemente campata in aria. Non ha molto senso per me parlare di serie tv o di videogiochi, di moda o del mondo dell’arte contemporanea, senza avvalersi di analisi empiriche sui consumi, sulle pratiche e su tutte le dinamiche sociali che intervengono nella costituzione di un fenomeno”.

Pop filosofia e didattica

  • Consideriamo la sua esperienza di docente e alcuni suoi sui testi recenti: “La filosofia spiegata con le serie tv” e “Filosofia del gaming: da Talete alla playstation”. I parallelismi e le riflessioni che nascono con le narrazioni e i giochi, quanto aiutano i ragazzi a capire i grandi filosofi del passato? Che riscontri ha avuto?

T. A. – “Credo sia un modo di applicare la pop filosofia alla didattica: se un fenomeno pop può provocare la riflessione filosofica, allora può rivelarsi anche un ottimo strumento per la sua divulgazione migliore. Attraverso un vero e proprio metodo, gli studenti vengono condotti alla riflessione filosofica più genuina, sfruttando l’attenzione che può suscitare una serie tv o un videogioco per provocare l’apprendimento. Come ho ripetuto in moltissime occasioni, non si tratta affatto di banalizzare il discorso filosofico, ma di “complicare” la scena, affiancando i grandi pensatori e i loro temi a fenomeni che ricevono una grande attenzione da parte di tutti”.

“Ho parlato di metodo: infatti solo la frequentazione con i fenomeni pop propria della pop filosofia permette di evitare parallelismi impropri e inefficaci. La didattica che si serve delle ricerche “pop filosofiche” ha avuto ottimi riscontri: nella pratica quotidiana dell’insegnamento o nei progetti per l’orientamento ha migliorato enormemente la motivazione degli studenti, nonché la capacità di appropriarsi dei mezzi di riproduzione della società contemporanea. Oggi, infatti, studentesse e studenti possono produrre testi, immagini, video della stessa potenza dei prodotti che consumano, comprendendo in primo luogo come sono fatti e quali sono le leve che utilizzano”.

Filosofare e videogiocare non sono attività così diverse

“Testi come “La filosofia spiegata con le serie tv” hanno avuto inoltre, non solo in termini editoriali, un riscontro unico. Pubblicato nel 2017, mi viene richiesto ogni anno di presentarlo in qualche scuola o in rete. Segno che l’interesse, e l’efficacia, non si sono mai placati. In un paese dove le novità editoriali sono decine di migliaia all’anno, resistere in questo modo credo abbia pochi precedenti. Per quanto riguarda invece “Filosofia del gaming. Da Talete alla Playstation” si sta verificando un fenomeno ancora più insolito”.

“Non sono pochi i docenti che lo stanno proponendo come integrazione al manuale scolastico. Il testo ha un’impostazione che si presta bene a tale uso: è una piccola storia della filosofia che funziona al tempo stesso come una piccola storia del videogioco. Per me era il miglior modo per provare che filosofare e videogiocare non sono attività così diverse. Anzi l’una (la filosofia) prepara l’altra (il videogioco)”.               

Ripensare la scuola e l’università

  • Secondo Lei è possibile impostare una scuola diversa e una Università diversa con queste modalità? Quali sono, e se esistono, dei possibili ostacoli da considerare per l’attuazione?

T.A. – “Una scuola e un’università “pop” sono più che possibili, sono necessarie. Nella mia prospettiva l’apprendimento o è votato all’emancipazione oppure semplicemente non ha luogo.  E oggi per me l’emancipazione passa per la possibilità di smontare e rimontare ciò che abbiamo sotto gli occhi e che ha più potere su di noi: discorsi, dispositivi, pratiche. Ignorarli è un errore, demonizzarli è semplicemente stupido. L’ostacolo maggiore è ovviamente il tempo a disposizione dei docenti per leggere un libro o anche solo vedere un film o una serie tv”.

“Giocare a un videogioco recente sarebbe pura utopia. Si tratta di dirlo forte e chiaro: i docenti a scuola e all’università sono assorbiti da attività spesso inutili che rendono difficili anche solo preparare in modo degno una lezione. Rispetto solo a vent’anni fa il lavoro è stato più che raddoppiato (a stipendio invariato). Solo con grande difficoltà e vera e propria dedizione un docente riesce a leggere, vedere, giocare, ovvero a sintonizzarsi un- minimo con i propri discenti. Fino a quando si è quasi coetanei con i propri studenti è facile: i consumi culturali sono quasi gli stessi, le responsabilità familiari minime. Ma dopo? Quanti docenti riescono a leggere almeno dieci libri (romanzi, saggi etc,) all’anno? Il sociologo dilettante che è in me provoca non poco il filosofo“.

Fare ricerca in pop filosofia e sociologia dell’arte

  • Quali sono per lei i campi di applicazione della ricerca filosofica e sociologica dell’arte? Quali potrebbero essere degli spunti di ricerca per i giovani ricercatori che vogliono intraprendere una carriera nel settore?

T.A. – “Oggi siamo di fronte a una grande sfida: pensare l’arte al di là della distinzione con la cultura di massa e con l’industria culturale. Una sfida che va integrata con un’altra: pensare l’arte insieme alla trasformazione del senso della città e dell’abitare. Proprio raccogliendo quest’ultima sfida, da sociologo dilettante e insieme a una collega, Giulia Netti, docente di Fondamenti di Marketing culturale presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce (l’accademia dove anch’io insegno), abbiamo appena pubblicato una ricerca, “Il sistema dell’arte contemporanea e l’industria culturale a Lecce” (Edizioni Milella), frutto del lavoro degli ultimi due anni, sulla relazione tra l’arte contemporanea e la trasformazione urbana della città. In fondo, ciò che chiamiamo “arte contemporanea” è nata nel 1895 con la Biennale di Venezia, ovvero con il grande tentativo di rinascita culturale della città”.

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