Più volte è stato sottolineato in questo spazio virtuale l’eterogeneità delle discipline sociologiche. Con le interviste a eminenti docenti e ricercatori si tenta di avvicinare mondo accademico e appassionati di sociologia parlando, per esempio, di sociologia dello sport e di sociologia della religione. Per questa occasione è stato molto interessante fare due chiacchiere con la professoressa Anna Lisa Tota, Prorettrice Vicaria dell’Università degli Studi Roma Tre dal 13 luglio 2022, dove insegna Sociologia dell’arte, Sociologia della comunicazione e Sociologia della musica.

La sociologia della musica per capire il mondo attuale

  • Dal punto di vista sociologico, la musica sembra essere un oggetto di studio oltre che affascinante, sempre presente nella storia umana. Come descriverebbe questa branca delle scienze sociali a chi si avvicina per la prima volta non solo alla sociologia in generale ma proprio agli studi sulla sociologia della musica?

Anna Lisa Tota – “Esiste certamente un punto di vista sociologico sulla musica che, affiancando gli altri contributi disciplinari, permette di ampliare significativamente le prospettive teoriche ed empiriche dei music studies. La Music Sociology, infatti, permette di approfondire o, in alcuni casi, letteralmente di introdurre tematiche nuove, come ad esempio quella dei linguaggi musicali oppure quella relativa al rapporto tra produzione e consumo rispetto alle culture giovanili”.

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La professoressa Anna Lisa Tota. Qui il suo sito -> www.annalisatota.it

A.L.T. – “Si pensi, inoltre, a tutte le questioni legate nella contemporaneità all’uso di piattaforme digitali per la diffusione e ricezione dei testi musicali, piattaforme che impiegano algoritmi capaci, almeno parzialmente, di interpretare e letteralmente di plasmare i gusti dei fruitori e delle fruitrici. Gli interrogativi da affrontare sono molteplici e al contempo rilevanti soprattutto se riferiti al panorama italiano, dove una vera e propria tradizione di ricerca su questi temi inizia soltanto ora a consolidarsi”.

La Sociologia della musica nel panorama internazionale

A.L.T. – “Nel panorama internazionale, invece, la sociologia della musica costituisce un ambito di ricerca molto frequentato e radicato. Facendo un po’ un excursus, potremmo dire che negli ultimi decenni la sociologia della musica europea e statunitense ha esplorato, in primo luogo, il rapporto con la società, interrogandosi sul funzionamento delle istituzioni e dei mercati musicali (soprattutto nella contemporaneità, come si diceva, anche in funzione delle piattaforme musicali). Inoltre, ha indagato i percorsi attraverso cui un/a musicista giunge a costruirsi una reputazione o ancora le modalità con cui si configurano le carriere estetiche dei pezzi musicali”.

“Un ulteriore ambito di indagine ha esplorato il modo in cui si costruiscono socialmente i significati dei testi musicali. In un articolo pubblicato gnel 1986 Tia DeNora, sociologa della musica all’Università di Exeter, aveva documentato come tali significati non possano essere iscritti nel testo stesso, ma si attivino grazie ai processi interpretativi messi in atto dai fruitori. In tal senso i significati musicali non appaiono locati nella musica, ma piuttosto nel rapporto che il testo musicale instaura con chi lo suona e con chi lo fruisce”.

Il rapporto tra i soggetti e il testo fruito

A.L.T. – “Questo tipo di impostazioni ha inaugurato una serie di studi sulle successive interpretazioni di uno stesso testo fruito in contesti diversi: ad esempio, il caso del mancato riconoscimento della musica di Sting nella stazione metropolitana di Ladbrooke Grove (un caso ricostruito da me in un libro pubblicato nel 1998) oppure l’analisi delle successive mutazioni nella ricezione di una sinfonia impiegata come colonna sonora di un film oppure di uno spot pubblicitario (pubblicai nel 1999 un articolo dedicato proprio ai processi di ibridazione dei testi musicali, facendo riferimento al loro impiego come colonne sonore di spot pubblicitari)”.

“Negli studi di quest’ultimo filone si è teso ad analizzare come pezzi del sociale di varia natura entrassero via via come ingredienti cruciali nei processi di significazione legati alla produzione o al consumo di un dato testo musicale. L’intento esplicito era, quindi, quello di svelare e individuare le modalità con cui il sociale diviene risorsa di senso per il mondo musicale”.

L’Interdisciplinarietà della sociologia della musica

  • La musica – come altri fenomeni sociali – chiama a sé un’interdisciplinarietà molto variegata. Pensiamo all’uso che se ne fa per la costruzione antropologica dell’esperienza come nella taranta, o alla musicoterapia. Quanto la musica gioca un ruolo attivo nella nostra vita quotidiana?

A.L.T. – “Gli studi sociologici si sono incrociati con quelli di musicoterapia, ad esempio, per analizzare le modalità attraverso cui la musica può contribuire alla cura dei malati di Alzheimer e di demenza senile, restituendo a questi ultimi dignità e benessere. Su questa questione Oliver Sacks nel 2007 ha scritto”:

“In particolare, la risposta alla musica si conserva anche quando la demenza è molto avanzata. Nella demenza, però, il ruolo terapeutico della musica è molto diverso da quello che essa ha nei pazienti con disturbi motori o del linguaggio. La musica che aiuta i pazienti parkinsonsiani, per esempio, deve avere un carattere ritmico deciso, ma non occorre che sia famigliare o evocativa. (…) Nelle persone con demenza, d’altra parte, lo scopo della musicoterapia è molto più ampio di questo: essa cerca di rivolgersi alle emozioni, alle facoltà cognitive, ai pensieri e ai ricordi – insomma al sé sopravvissuto del paziente - per stimolarli e farli emergere. Mira ad arricchire ed ampliare l’esistenza, offrendo libertà, stabilità, organizzazione e concentrazione.“. 

“Gli studi di Oliver Sacks hanno dimostrato che i pazienti affetti da demenza senile, persino nello stadio più accentuato della malattia, non perdono del tutto il loro sé: essi conservano un’impronta della loro soggettività anche se in una forma del tutto trasformata. Il sé perdura e la musica è un’utile lente capace di mostrare questi processi anche in pazienti ormai prossimi alla fine della loro vita”.

Musica e late learning

A.L.T. – “Un ulteriore studio su questo punto che vale la pena ancora menzionare è quello di De Nora, Schmidt, Simpson e Ansdell pubblicato nel 2022, che documenta le potenzialità di attivare processi di late learning, grazie alla musica in pazienti anziani affetti da forme di demenza senile e molto prossimi alla fine della loro esistenza. Laddove i processi di riabilitazione più tradizionali possono fallire, si aprono infatti strade del tutto inedite per la musicoterapia che sembra condurre i pazienti in spazi inesplorati, dove le competenze perdute possono essere riconquistate”.

I linguaggi musicali mostrano così ancora una volta la loro capacità alchemica di trasformazione della condizione umana anche nelle ultime fasi della vita in prossimità della morte. D’altra parte, vi sono molti esempi di suoni della natura, del tutto comparabili a quelli musicali, dei quali nel senso comune è ben nota la capacità di produrre benessere: si pensi al canto degli uccelli. Non è certo un caso che un grande musicista come Olivier Messiaen fosse anche un grande studioso di ornitologia e che si occupasse proprio del loro canto, nella convinzione che esso rappresentasse la forma musicale perfetta”.

La sociologia della musica non è una cura ma…

A.L.T. – “Tuttavia, il ruolo della musica non è soltanto quello di “curare” le patologie che ci affliggono nel quotidiano: certamente questo è un aspetto molto importante e l’intersezione virtuosa tra music sociology e musicoterapia può portare a risultati sempre più innovativi e fondamentali. Il ruolo della musica è un aspetto fondamentale della vita quotidiana in tutte le sue molteplici declinazioni”.

Nel libro “Ecologia del pensiero” (2023) propongo di effettuare un’etnografia dei suoni quotidiani che ascoltiamo e di utilizzare i risultati così raccolti per comprendere meglio il rapporto tra i paesaggi sonori che attraversiamo e la nostra soggettività. Il concetto di soundscape, a cui quel libro fa riferimento, è fondamentale per comprendere il nostro percorso biografico e identitario: infatti, se siamo le parole che ascoltiamo, come argomento in “Ecologia della parola”(2020) perché mai non dovremmo essere, almeno in parte e potenzialmente, anche i suoni che udiamo? “Il suono infatti è volume, come ci ricorda Giuseppe Penone in un suo scritto del 2022, esso “occupa lo spazio in modo instabile, breve, anche la scultura è volume e occupa lo spazio in modo più duraturo”. Nelle parole del celebre artista ritroviamo quella consistenza e quella materialità del suono, che nella vita quotidiana fingiamo talora di ignorare”.

La sociologia della musica nel quotidiano

“La riflessione sulle colonne sonore del quotidiano si inserisce in un filone di studi empirici che si sono affermati nella seconda metà degli anni Novanta, proponendo un nuovo terreno di indagine per la sociologia della musica, che aveva per oggetto la mediazione musicale dell’esperienza sociale e che focalizzava l’attenzione sulle modalità attraverso cui differenti gruppi di attori sociali (ad esempio, i giovani) utilizzano la musica come risorsa di senso nei processi interpretativi della vita quotidiana”.

E noi nel quotidiano che beneficio possiamo trarre da questo tipo di studi? Noi possiamo vigilare, ascoltare ed analizzare i paesaggi sonori che via via nelle nostre giornate percorriamo; chiederci che effetto hanno su di noi e se davvero sono proprio quelli i suoni che vorremmo ascoltare, nella consapevolezza del fatto che, indipendentemente dalla nostra decisione di ascoltarli o ignorarli, l’azione ancorché tacita di negare un suono deve essere svolta, se non dalla nostra mente consapevole, almeno dal nostro udito. Qualche parte di noi, insomma, con quel suono – divenuto rumore in quanto ignorato- dovrà farci i conti e quindi non ne potremo essere del tutto indenni. La musica ha una vera e propria funzione di agency: non a caso si parla di sonic agency”.

La Sociologia della musica e la questione dei gusti generazionali

  • Negli anni ’50 del Novecento Frank Sinatra, simbolo di un cantautorato occidentale post-bellico, definì l’allora esordiente genere musicale apprezzato dai giovani rock ‘n’ roll “una musica scritta, suonata e cantata da strampalati cretini”. Questa critica aspra – non solo tra diversi generi musicali ma tra due diverse generazioni – la si ritrova molto spesso nei discorsi anche oggi. Oltre il celebre esempio vien da pensare, banalmente, a un nostro genitore o zio che ha vissuto gli anni ’70-‘80: “la musica di oggi fa schifo, queste canzonette sono tutte uguali. Ma che ne sanno questi? Genesis, Pink Floyd, Deep purple, Led Zeppelin, questa era vera musica…. Immortale”. Ecco, perché si criticano così tanto i nuovi sound? Perché e quanto è importante la musica per i giovani e i movimenti che nascono da loro?

A.L.T. – “Pur nella varietà delle prospettive, gli studi cui ho fatto riferimento documentano il ruolo che la musica ha come ingrediente attivo e come risorsa di senso nei processi di costruzione sociale della realtà. In altri termini, il modo in cui facciamo esperienza del mondo e di noi stessi può essere musicalmente strutturato. Se il reale è messo in musica, se inquadriamo la nostra quotidianità in una serie definita di colonne sonore pertinenti, i nostri processi di attribuzione del senso, le nostre procedure interpretative possono mutare radicalmente”.

“Si pensi ad esempio al ruolo costitutivo che una musica può avere sui processi del ricordare sia privato (ad esempio, la canzone del primo amore) sia pubblico (le canzoni dei Beatles per mappare un certo periodo storico e culturale). Ovviamente data la estrema rilevanza dei testi musicali nella costruzione dei percorsi biografici la variabile “generazione di appartenenza” finisce per giocare un ruolo cruciale e per funzionare da variabile distintiva capace di creare veri e propri cluster quasi antagonistici di preferenze musicali. Ecco perché generazioni precedenti di appassionati consumatori culturali possono giungere a criticare talora così aspramente le preferenze e i gusti musicali dei più giovani: la musica crea e trasforma interi mondi esperienziali e cognitivi”.

“Ai miei tempi la musica era di qualità”

A.L.T. – “Questi processi, nel passaggio da una generazione all’altra, possono scatenare opposizioni e resistenze. L’oggetto vero della contestazione spesso non è il testo musicale in questione, ma piuttosto il fatto di non sentirsi più partecipi, di non sentirsi più allineati rispetto al tempo presente, come se ci volesse “imputare”, come se attraverso l’aspra critica alla musica “moderna” si intendesse fermare quel trascorrere del tempo troppo veloce e troppo vorticoso, capace di far rimanere indietro qualcuno: “ai miei tempi sì che la musica era di qualità …”

“Vorrei aggiungere, per ribadire la centralità dei codici musicali, anche un ulteriore esempio: persino nei processi commemorativi le musiche hanno spesso un ruolo di primo piano. Potremmo dire che la maggior parte del nostro immaginario sociale è mappato da una serie di canzoni famose”.

“Vi sono testi, le cui precedenti ricezioni sono a tal punto codificate, da essere in grado da soli di rimandare ad un genere filmico (le musiche di Sergio Leone per i film western), ad un’atmosfera culturale (la Quinta di Mahler, il cinema di Visconti e il fascino seducente della Venezia di Thomas Mann), ad un’identità sociale (il rap, il raggamuffin e l’hip hop per le culture giovanili), ad un’immagine nazionale (non soltanto gli inni ufficiali, ma anche canzoni come “O sole mio” oppure “Volare” che assurgono a simboli dell’immaginario sonoro di una nazione), ad un certo prodotto commerciale (in generale tutte le colonne sonore degli spot pubblicitari più famosi)”.

La musica come materiale estetico

A.L.T. – “In tutti questi casi è evidente che la musica è un vero e proprio materiale estetico in grado di costruire mondi sociali, di attribuire identità individuali e collettive, di attivare inediti processi di sperimentazione del reale. Data questa sua caratteristica intrinseca si comprende più facilmente come differenti generazioni possano talvolta avere gusti musicali differenti e soprattutto preferenze così marcatamente opposte: le culture musicali segnano indissolubilmente le culture generazionali. Tuttavia, non conta soltanto la variabile “generazione di appartenenza”. Ve ne sono altre altrettanto incisive nella capacità di operare distinzioni. Ad esempio, Roland Barthes nel 1977 scriveva”:

“Ci sono due tipi di musica (o almeno io ho sempre creduto così): la musica che si ascolta e quella che si suona. Questi due tipi di musica sono arti totalmente diverse: uno stesso compositore può essere bellissimo da ascoltare e terribile da suonare”.

“Una riflessione sulle modalità attraverso cui la musica diviene ingrediente attivo nei processi di produzione sociale del significato non può certamente prescindere da questa distinzione: vi sono differenti modalità di rapportarsi alla musica e, certamente, i musicisti e le musiciste ascoltano la musica in modo totalmente diverso da chi non sa suonare uno strumento musicale. Roland Barthes si riferisce alla musica classica, ma la distinzione che introduce è importante per ogni genere musicale”.

La sociologia della musica e movimenti giovanili

A.L.T. – “In particolare, quando si parla del consumo di musica da parte dei giovani e delle giovani si tende spesso a trascurare il fatto che molti e molte di noi non soltanto ascoltano e vivono con la musica, ma suonano, ballano, cantano. Applicando a tali riflessioni la prospettiva dell’etnografia della musica, si delineano una serie di questioni importanti: in primo luogo occorre chiedersi che cosa facciamo con la musica e, secondariamente, quali mutamenti introduce la musica nella nostra esperienza del quotidiano. Il nesso che si delinea immediatamente concerne il ruolo della musica nella costruzione sociale delle identità”.

“Molti studi hanno documentato come le preferenze musicali costituiscano un valido indicatore delle rappresentazioni del self cui facciamo riferimento: una sorta di “dimmi cosa ascolti e ti dirò chi sei”. I testi musicali sono considerati nelle loro connessioni con le identità individuali e anche collettive: ad esempio, Ron Eyerman ha studiato la musica come base dell’azione collettiva di alcuni movimenti giovanili. Da questo tipo di studi è emerso con evidenza il ruolo che la musica ha nell’influenzare il modo in cui pensiamo a noi stessi: non si tratta semplicemente di favorire il sorgere di emozioni specifiche (allegria versus malinconia) o di atteggiamenti (senso di onnipotenza, ecc.), ma di contribuire in modo essenziale all’autorappresentazione del soggetto stesso”.

Il rapporto tra musica e identità

A.L.T. – “Ma qual è il rapporto tra musica e identità individuali e/o collettive? Anche in questo caso possiamo fare riferimento ad un’ampia tradizione di studi che hanno messo a tema il rapporto tra musica e movimenti collettivi (da Ron Eyerman in poi), documentando in particolare il ruolo di alcuni generi musicali come linguaggio privilegiato per l’espressione di antagonismo da parte dei movimenti di protesta. In particolare, Eric Drott in un saggio del 2015 sottolinea come negli ultimi decenni quasi tutti i movimenti di protesta abbiano individuato una musica specifica come colonna sonora per l’espressione della loro lotta. Egli significativamente scrive:

“Se ci fosse ancora qualche dubbio riguardo al significato della musica per la protesta politica, l’ondata di agitazione che ha travolto il globo a partire dalla crisi finanziaria del 2008 dovrebbe averlo definitivamente dissipato. Si considerino i seguenti esempi: il ruolo del rapper tunisino El Général nel catalizzare la Rivoluzione dei Gelsomini; la performance improvvisata di Manu Chao dinnanzi all’accampamento degli Indignados a Barcellona nel maggio 2011; il cerchio di tamburi i cui ritmi risuonarono attraverso tutto Zuccotti Park durante Occupy Wall Street; la trasformazione del ritornello di Ramy Essam “Irhal, irhal” (“lascia, lascia”) nel grido di battaglia di coloro che chiedevano la cacciata di Hosni Mubarak a Tahrir Square; l’appropriazione scherzosa da parte dei manifestanti brasiliani  di “Vem pra pra” (Vieni in strada), una canzone originariamente commissionata per una pubblicità commerciale della Fiat”.

Musica e comunità

A.L.T. – “È evidente che la musica serve per fare comunità ed anche per costituire comunità antagonistiche in grado di opporsi al potere egemonico. Storicamente gli esempi si moltiplicano: si pensi al caso della musica jazz nella seconda metà del Novecento e a come questo genere musicale abbia contribuito a dare espressione alle rivendicazioni per i diritti civili della popolazione afroamericana o ancora al rapporto tra hip-hop e discriminazioni etniche. Non occorre, tuttavia, ripercorrere tutta la storia recente dei generi musicali per sostenere una banale constatazione già fatta propria dal senso comune: possiamo ipotizzare che esista un io musicale e che esso si possa declinare sia nella sua dimensione individuale, sia in quella collettiva”.

“Un’ultima considerazione concerne infine i possibili processi di colonizzazione dell’immaginario sonoro. Se provassimo a declinare anche in ambito musicale, il riferimento di Gruzinski e di Augè alla “guerra dei sogni”, cioè all’immaginario come terreno di scontro e colonizzazione fra i popoli, potremmo provare ad interrogarci sulle possibili guerre dei suoni, cioè sullo scontro/incontro fra culture generazionali diverse in termini di reciproche colonizzazioni dei rispettivi immaginari musicali, una sorta insomma di reciproco rispecchiamento tra mazurke di paesana memoria e raggamuffin”.

La sociologia della musica tra fruizione e genio artistico

  • Oltre l’etnia, il gender e la classe sociale, il genio musicale vede nello scenario contemporaneo anche una variabile “piattaforme digitali”. Pensiamo ai Måneskin o a Geolier: dalla strada ai palazzetti. Quanto è cambiata la diffusione dei prodotti artistici e il mercato della musica a fronte delle nuove modalità digitali di fruizione musicale? Cosa può dirsi oggi “di successo”? e soprattutto, esiste ancora il genio?

A.L.T. – “Il genio musicale è una categoria sociologica molto studiata, all’interno di un filone denominato appunto “politiche del genio”. Questa nozione e le sue implicazioni sono al centro sia degli studi di Norbert Elias, che nel 1991 analizza estesamente il caso di Mozart, sia di quelli di Tia DeNora, che nel 1995 esplicita i presupposti e le conseguenze sociali del talento di Beethoven. In quel famoso libro Elias definisce significativamente Mozart come «un genio vissuto prima dell’età dei geni […] nato in una società che non conosceva ancora il concetto romantico di “genio” e il cui canone sociale non offriva un posto legittimo all’artista geniale con una personalità molto spiccata» (…)”.

“Lo studio di Elias ha un duplice esito: sul piano della conoscenza sociologica, ci mostra chiaramente il percorso di costruzione del sociologo come “cacciatore di miti” e, dal punto di vista specifico delle politiche del genio, sottrae Mozart «all’isolamento sbrigativo del genio» come ci ricorda Pestelli nella sua bella introduzione, collegando indissolubilmente le vicende di Mozart artista a quelle di Mozart uomo”.

Gli studi sul genio musicale

A.L.T. – “Questo contributo, al pari di quello di Tia De Nora, interrogandosi sulle dinamiche sociali che sostengono e rendono possibile l’affermarsi del talento musicale, affronta il rapporto tra l’opera e le politiche del genio di una data società. A differenza di Elias, De Nora pone esplicitamente la questione del passaggio a concezioni costruttivistiche del genio. Nel suo studio il talento di Beethoven non appare self-evident: l’autrice analizza i modi in cui la superiorità di Beethoven è stata elaborata e sostenuta dai suoi contemporanei (attraverso pubbliche relazioni, mobilitando altri significativi in grado di produrre testimonianza di)”.

“L’analisi evidenzia il ruolo delle relazioni di potere tra l’artista e il suo pubblico, tra l’artista e i suoi patroni nel rendere possibile il talento stesso del compositore (…). De Nora ricostruisce inoltre alcuni dei modi attraverso cui la reputazione di Beethoven ha contribuito a dare l’avvio alla più rilevante trasformazione della vita musicale nei primi anni del XIX secolo. Tale trasformazione è consistita da una parte nell’affermarsi di pattern deferenziali nelle modalità di fruizione del concerto di musica classica, dall’altra nell’emergere della distinzione tra musica seria e leggera, e infine nel diffondersi della nozione di master composer”.

Senza mutamenti non possono esserci i geni

A.L.T. – “Come spesso succede, senza questi mutamenti profondissimi nella cultura musicale di quell’epoca la figura di Beethoven non sarebbe stata possibile, il suo genio cioè non avrebbe potuto essere riconosciuto come tale. Questo tipo di contributi offre una base empirica rilevante per documentare la natura relazionale dei concetti di “genio” e di “talento”: questi ultimi, lungi dall’essere meri attributi individuali, sono costrutti sociali che richiedono per la loro riproduzione l’attivazione di un insieme articolato di istanze contestuali. Questo tipo di impostazione teorica non muta con l’avvento delle piattaforme digitali: mutano fondamentalmente i processi da analizzare, ma gli occhiali attraverso cui guardarli continuano ad essere efficaci”.

“Il costruttivismo sociale continua a costituire un punto di riferimento utile per comprendere cosa succede, cosa rende possibile che cosa. Ovviamente nella contemporaneità non si può più prescindere dall’impatto pervasivo e costitutivo delle piattaforme digitali che entrano nelle definizioni stesse di ciò che è il talento musicale contribuendone a plasmarne le forme. Le piattaforme plasmano i mercati musicali e non sempre a beneficio della qualità”.

La sociologia della musica e i media studies

A.L.T. – “Ma c’è un altro mutamento che prende forma dinnanzi ai nostri occhi e che forse tendiamo a sottovalutare: si tratta dell’intersezione tra immaginario sonoro e modalità attraverso cui le immagini si sono nel tempo intersecate con musiche e canzoni. Le categorie analitiche che i visual e i media studies hanno elaborato sono adatte prevalentemente allo studio e alla mappatura del materiale visivo, di tutto l’immaginifico di cui le culture dominanti e le subculture ci hanno variamente dotato, ci hanno insomma abituato a pensare per immagini, come se non si trattasse quasi sempre di immagini sonore”.

“Tra l’altro è soprattutto con l’avvento e la diffusione pervasiva della pubblicità che questo tipo di meccanismi si amplifica enormemente: i grandi successi pop, rock o di musica classica sono impiegati per vendere prodotti e al contempo per delineare stili di vita. Dato che, come ha sottolineato Goodman nel 1968, la musica è allografica, le passeggiate di senso che un testo musicale permette sono particolarmente ampie e i pubblicitari sanno avvantaggiarsene con grande perizia”.

La sociologia della musica e la responsabilità etica

  • In quanto prodotto artistico, la musica, e in particolare le canzoni, vengono usate dall’artista per esprimersi liberamente. Pensiamo per esempio all’amplesso simulato di Jimmy Page in Black dog. Esiste un limite a ciò che si può dire e fare in una canzone?

A.L.T. – “La musica è un potente mezzo di trasformazione sociale. Il limite a ciò che si può dire e fare in una canzone può essere spiegato tramite il ricorso al paradigma sociologico della musica come “agency”. Gli artisti attraverso la musica e le canzoni possono sì esprimersi liberamente, ma con un’azione di etica e responsabilità sociale devono farsi carico dei messaggi che vogliono veicolare. La musica, infatti, è un potentissimo mediatore sociale, culturale e cognitivo del modo in cui facciamo esperienza del mondo. Non si tratta soltanto di comprendere come il contesto di fruizione o di produzione possa influire nel processo di costruzione del significato del testo musicale, ma piuttosto si tratta di comprendere fino a che punto la musica possa funzionare come risorsa di senso, cioè a come la musica si faccia agency (“music into agency” appunto)”.

“Se è vero che noi “facciamo tantissime cose con la musica” – almeno occasionalmente guidiamo, mangiamo, dormiamo, balliamo, facciamo ginnastica, ricordiamo, dimentichiamo, ci consoliamo, pensiamo, scriviamo, studiamo, ci innamoriamo, commemoriamo – ciò significa che la musica diviene un ingrediente attivo e cruciale di gran parte della nostra esistenza. Gli artisti e le artiste devono assumere consapevolezza rispetto all’impatto sociale, politico e culturale che il loro lavoro può avere”.

“C’è una dimensione di morale individuale e di etica pubblica sottesa a tutto ciò che facciamo e che diciamo persino nelle conversazioni quotidiane. Figuriamoci quando un artista produce un testo musicale che diventa famosissimo: è chiaro che avrà un grande impatto. L’artista può decidere come usare il potere iscritto nella musica che produce, ma indipendentemente dalla sua assunzione di consapevolezza il potere trasformativo permane”.

La musica come agency

A.L.T. – “Vorrei qui ricordare una similitudine che propongo in “Ecologia del pensiero” (2023): la musica riveste una forma particolare di “agency”, capace di contribuire a forgiare e plasmare il sociale in forme e contesti differenti. Una similitudine illuminante, utile a comprendere intuitivamente e in modo immediato il potenziale di questo paradigma sociologico, potrebbe consistere nel paragonare la musica alla fiamma di una candela e il sociale alla cera della candela stessa: la musica contribuirebbe a rendere malleabile il sociale, così come la fiamma rende malleabile la cera”.

“La fiamma, scaldando la cera, la rende potenzialmente disponibile a mutare di forma e consistenza. La musica potrebbe avere un effetto analogo nelle situazioni sociali, come se interpellando le emozioni di una collettività, fosse capace di dischiudere un potenziale di apertura. Questa similitudine deve essere intesa per quello che è: una mera suggestione in grado di aggiungere tuttavia nuovi elementi alla nostra comprensione della composizione musicale del nostro quotidiano. Sarebbe fuorviante trasformare questa metafora in un’ipotesi di ricerca verificabile empiricamente; più semplicemente, questa metafora ci può aiutare a pensare meglio”.

Come fare ricerca nell’ambito della sociologia della musica

  • Rivolgendosi a delle potenziali studentesse e studenti, quali potrebbero essere, secondo lei, delle interessanti ricerche da fare nell’ambito di sociologia della musica? Soprattutto, che tecniche di indagine consiglierebbe?

A.L.T. – “Ad esempio, nel libro “Ecologia del pensiero” (2023) propongo di affiancare al concetto di paesaggio (landscape) quello di paesaggio sonoro (soundscape) e di declinare quest’ultimo all’interno di una prospettiva ecologica, analizzando le potenziali forme di inquinamento acustico del nostro quotidiano; ciò al fine sia di comprendere meglio la composizione musicale delle nostre traiettorie biografiche, sia di mettere a fuoco gli intrecci tra soundscape e soggettività. Inoltre, propongo di effettuare una vera e propria auto-etnografia dei suoni che quotidianamente ascoltiamo, per documentare appunto in che misura noi siamo potenzialmente anche i suoni che ascoltiamo. Questo penso possa divenire un importante terreno di indagine per studi qualitativi in ambito musicale”.

“Infatti, sebbene molti scienziati sociali continuino a ritenere che nella contemporaneità la modalità cognitiva prevalente sia quella visuale, un numero crescente di studiosi si occupa di sound studies e di acoustic environments, come ad esempioCorbin nel suo saggio del 1998, in cui si documenta in modo inequivocabile come i suoni abbiano un’elevata incidenza nel marcare e denotare gli spazi sociali e naturali. Il concetto di soundscape viene così efficacemente affiancato a quello ben più noto di landscape che rimanda strettamente all’esperienza visuale del paesaggio.

Metodi etnografici

A.L.T. – “Negli ultimi decenni il paesaggio sonoro è stato al centro di numerose riflessioni teoriche che ne sottolineano accezioni talora molto differenti. Solitamente, comunque, si indica con tale termine l’insieme delle esperienze di ricezione uditiva dei soggetti che si trovano immersi in un determinato ambiente. Emily Thompson nel 2002 ci rammenta il fatto che il paesaggio sonoro è contemporaneamente un ambiente fisico e il modo in cui tale ambiente viene percepito”.

“In altri termini, esso consisterebbe sia in un mondo, sia nel costrutto culturale che produce il processo di significazione di quel mondo. Penso davvero che questo rappresenti un terreno di ricerca molto fertile e ritengo che l’approccio metodologico più utile a questo scopo dovrebbe basarsi su metodi di ricerca qualitativi di tipo etnografico, che focalizzino l’attenzione sulle modalità attraverso cui differenti gruppi di attori e attrici sociali utilizzano la musica come risorsa di senso nei processi interpretativi della loro vita quotidiana”.

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