La maggioranza degli italiani ritiene che gli immigrati residenti nel nostro Paese siano il 30% della popolazione (anziché l’8%)“. Il 52,6% invece, che l’aumento degli stessa faciliti “il diffondersi del terrorismo e della criminalità“. Sono solo alcune delle elaborazioni contenute nella ricerca sviluppata dalla Commissione sull’Intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, istituita nel 2016 ed intitolata ad Helen Joanne Cox, barbaramente uccisa a soli 41 anni a Birstall, nello Yorkshire, da un uomo di 52.

La piramide dell’odio

Contraria alla Brexit, la Cox si era occupata di temi legati alle classi marginali della società inglese e all’accoglienza dei rifugiati siriani. Gli esperti della Commissione, presieduta dalla Presidente Laura Boldrini e composta da un deputato per ciascun gruppo politico (nonché da rappresentanti del Consiglio d’Europa, delle Nazioni Unite, dell’ISTAT e di altri centri di ricerca), hanno lavorato per 14 mesi al rapporto intitolato “La piramide dell’odio in Italia“, di cui i riferimenti. Il documento è stato approvato dalla Camera dei Deputati il 6 luglio 2017. Nel tentativo di approfondire tali statistiche, abbiamo rivolto delle precise domande, in esclusiva per Sociologicamente, a Luca Massidda, PhD in Comunicazione e nuove tecnologie ed insegnante di Sociologia dei fenomeni politici e Sociologia della sicurezza sociale e della devianza presso l’Università degli Studi della Tuscia. Il suo ultimo libro, Post Politica. Morfologia di una campagna elettorale social, è stato pubblicato nel 2019 da FrancoAngeli. Si tratta, quindi, di uno dei massimi esperti del settore.

In quali casi si è razzisti?

Quali sono le caratteristiche con cui si manifesta un gesto di intolleranza? In poche parole, in quali casi si è razzisti?
Il razzismo ha origine nella tipologia forse più diffusa, storicamente, di pregiudizio: quello a base etnico-razziale. Nel momento in cui tra le molte, necessarie, forme di riduzione della complessità a cui siamo costretti ad affidarci per poter sopravvivere nel ‘traffico sociale’ che caratterizza le società moderne e tardo-moderne, facciamo ricorso a schemi interpretativi della realtà e delle relazioni sociali fondati sul principio – non solo politicamente scorretto, ma scientificamente insensato – della distinzione razziale, traducendo delle differenze nei caratteri biologici in fattori di discriminazione socio-culturale, stiamo certamente mostrando un atteggiamento razzista. Quando questa rappresentazione stereotipata e pregiudiziale dell’alterità e questa sentimentalità discriminante, si traducono in comportamenti sociali discriminatori – a partire dalla dimensione linguistica – si manifesta un gesto di intolleranza“.

Razzismo e discriminazione

È evidente che un bias razzista è profondamente radicato nel tessuto e nelle strutture delle società occidentali, nella sua storia e nelle sue tradizioni, è però altrettanto vero che nel corso della tarda modernità – nella seconda parte del XX secolo e nei primi anni del nuovo millennio – i nostri sistemi sociali hanno saputo progressivamente spingere ai margini della sfera pubblica, del discorso politico e della rappresentazione sociale posizioni, punti di vista e narrazioni esplicitamente riconducibili all’intolleranza e alla discriminazione razziale. I gesti di intolleranza e i comportamenti discriminatori non sono certamente scomparsi, ma la reazione sociale ad essi – se non unanime, sostanzialmente condivisa – era quella della condanna. Il principio dell’uguaglianza, almeno formalmente, sembrava esser diventato un luogo comune. Il processo di costruzione sociale dello stigma si è così spostato dalla razza al razzismo e a essere discriminata è stata la stessa discriminazione. Posizioni espressamente razziste sono state in questo modo escluse dal perimetro della legittimità sociale. Movimenti sociali e subculture urbane, i quali nella tarda modernità ancora fondavano la costruzione della propria identità sociale sul pregiudizio e la discriminazione razziale – ad esempio aggregazioni politiche di matrice post-fascista e gruppi ultras di estrema destra (due realtà spesso caratterizzate da forti sovrapposizioni) – sono stati confinati in una posizione politicamente e socialmente subalterna, al di sotto della soglia della rappresentanza politica e della rappresentabilità sociale. Certamente sotto questa superficie di politicamente corretto – che oggi qualcuno vorrebbe denigrare come ipocrita e buonista – il pregiudizio etnico era ancora molto diffuso, fortemente radicato nelle coscienze di ampi strati della società“.

Razzismo e pregiudizi

Certamente, questa marginalizzazione simbolica del pregiudizio razziale ha contribuito in misura molto minore – per qualcuno addirittura insignificante – al superamento della condizioni materiali di svantaggio che hanno continuato a caratterizzare, in maniera più o meno pervasiva, le diverse minoranze etniche. Però non dobbiamo sottovalutare l’importanza e il valore di una realtà sociale che in maniera sostanzialmente unanime si riconosce, almeno idealmente, in un sistema di valori che programmaticamente esclude dal proprio orizzonte culturale (e politico) il pregiudizio etnico. Soprattutto non possiamo sottovalutarlo oggi, nel momento in cui questo cordone sanitario che la tarda modernità aveva posto intorno alle rivendicazioni di legittimità del pregiudizio razzista, ha cominciato a dare preoccupanti segni di cedimento. Quello che sta passando dalle sue sempre più lente maglie è un sentimento di ostilità nei confronti dell’altro e della differenza (a partire da quella etnica) che mi sembra più corretto interpretare facendo riferimento al concetto, tutto inscritto nella modernità e nella sua storia politica, di xenofobia, piuttosto che a quello, antropologico-culturale di più lungo periodo, di razzismo“.

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Giulia Marra & Marino D’Amore

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