L’Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica, brevemente denominato UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), è l’organismo deputato dallo Stato italiano a garantire il diritto alla parità di trattamento di tutte le persone. Tale ente è stato istituito nel 2003 (d.lgs. n. 215/2003) in seguito a una direttiva comunitaria (n. 2000/43/CE), che impone a ciascun Stato Membro di attivare un organismo appositamente dedicato a contrastare le forme di discriminazione. Solo nel 2016, ha aperto 2.939 istruttorie per casi segnalati di discriminazione, di cui 2.652 sono risultate pertinenti (in media, più di 7 al giorno). Il 69% riguardano fatti discriminatori per motivi etnico-razziali. A tal proposito, abbiamo rivolto delle precise domande, in esclusiva per Sociologicamente, a Luca Massidda, PhD in Comunicazione e nuove tecnologie ed insegnante di Sociologia dei fenomeni politici e Sociologia della sicurezza sociale e della devianza presso l’Università degli Studi della Tuscia. Il suo ultimo libro, Post Politica. Morfologia di una campagna elettorale social, è stato pubblicato nel 2019 da FrancoAngeli. Si tratta, quindi, di uno dei massimi esperti del settore.

Intolleranza e xenofobia

Quali sono le radici storiche e sociali dell’odio razziale?

L’etimologia classica della parola “xenofobia” è, a mio avviso, piuttosto ingannevole. Suggerisce un percorso storico di lungo periodo, il quale affonda le sue radici nel momento generativo della cultura occidentale e del suo ordinamento politico, ovvero nella democrazia ateniese. In realtà, il concetto di xenofobia è inscritto nella modernità occidentale. In particolare, è legato a doppio filo con la nascita del nazionalismo. Non esiste la xenofobia nelle società pre-moderne, perché non esiste xenofobia laddove lo spazio della politica non definisce in via esclusiva il territorio dello Stato-Nazione come suo fondativo confine. In un saggio di prossima pubblicazione (all’interno del volume Il nemico, a cura di Manuel Anselmi e Laura Guercio, Mondadori Università, in uscita nell’autunno 2019) ho provato a ricostruire, a partire dalla sua prima semantica manifestazione, la breve storia della xenofobia e il significato del suo generativo legame con il nazionalismo. È negli stati europei della seconda metà dell’Ottocento, quando la caduta dell’Impero Napoleonico e i moti rivoluzionari del ’48 sancirono il trionfo dei nazionalismi, che compare per la prima volta il termine e (dunque) il sentimento xenofobo. Un sentimento di ostilità, paura e diffidenza nei confronti dello straniero che, come ha perfettamente descritto da Georg Simmel nel suo Excursus, ne cambia lo statuto. Non tanto la sua fisionomia, ma certamente la sua collocazione, la sua geografia sociale. Non si tratta più di respingere il barbaro alle porte, ma di convivere con l’Altro che ci è prossimo“.

pregiudizio verso lo straniero

È, più precisamente, nei periodi di particolare instabilità, politica e/o economica, dello Stato-Nazione che il sentimento xenofobo sistematicamente si riaccende. Ad ogni crisi strutturale del sistema, la società moderna sembra reagire con una particolare contrazione. Le risorse sul territorio si riducono, l’orizzonte sul futuro si oscura, la propria condizione socio-economica peggiora e si innesca quel meccanismo, consolatorio e reazionario, della guerra tra poveri, in cui finiscono per essere inevitabilmente coinvolte le minoranze straniere, l’out-group di più facile e immediata identificazione. Zygmunt Bauman riprende efficacemente una favola di Esopo, quella delle lepri e delle rane, per restituirci il senso di questa meschina conflittualità. Nella favola, le lepri trovano consolazione all’incertezza della propria esistenza nella più misera condizione in cui vive la comunità delle rane. Allo stesso modo, le classi nazionali che più si sentono colpite dal clima congetturale sfavorevole, ritrovano nei caratteri essenziali del pregiudizio verso lo straniero l’occasione ideale per riaffermare i fondamenti della propria esclusiva identità, la superiorità del proprio status, la legittima proprietà sulle scarse risorse presenti sul proprio territorio“.

Jean-Marie Le Pen, leader del Front National francese

Così, per la prima volta nella Francia della Terza Repubblica, scoppiò il caso Dreyfus e del nationalisme intégral, di Claude Maurras e dell’Action française. Successivamente, nel modo più drammatico, nella Germania post-Weimar, con il suo orgoglio nazionale umiliato e onnipotente. Ed ancora, in Francia, dopo la crisi globale del 1973, quando, per provare a rispondere al diffuso senso di insicurezza sociale, il governo decise di chiudere le frontiere, Jean-Marie Le Pen fonda il Front National e si apre la caccia ai topi – gli immigrati di origine islamica – delle Ratonnades del 1973. O, tornando in Germania, quando, all’indomani della caduta del muro di Berlino i costi e le incertezze di un complesso processo di riunificazione nazionale alimentarono, soprattutto tra le giovani lepri dell’ex Repubblica democratica tedesca, un forte sentimento xenofobo. Nello stesso modo sta accadendo oggi, con le tensioni liberate dalla crisi del 2007, le quali generano nuovi rigurgiti nazionalisti (nella forma, già conosciuta, dei populismi: basti ricordare che Le Pen padre, prima di fondare il Fronte Nazionale, era stato eletto, giovanissimo, al parlamento francese nelle fila del partito populista Unione e Fraternità di Pierre Poujade) e nuove reazioni xenofobe“.

Leggi la prima parte dell’intervista.

Giulia Marra & Marino D’Amore

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