Tanto a livello concettuale quanto a livello pratico, i termini “immigrato” e “rifugiato” presentano grandi differenze. Mentre per quel che riguarda la prima figura, si intende colui che abbandona il proprio paese d’origine in cerca di un lavoro e di condizioni di vita migliori (per sé e la propria famiglia), il secondo (così come stabilito dalla Convenzione di Ginevra del 1951) è colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra“. Dunque, per quel che riguarda la condizione di migrante, ciò che viene a mancare è l’elemento della persecuzione, necessario invece per far sì che venga riconosciuto e consesso lo status di rifugiato. Pur avendo i due termini un significato diverso, vengono spesso utilizzati indistintamente dai canali mediatici, senza quindi specificare, nel modo più corretto possibile, la situazione di fronte a cui ci si trova in base al singolo individuo, con il rischio di gestirla impropriamente. É piuttosto difficile sostenere che ciò possa accadere per disinformazione o noncuranza, considerando che gli strumenti per condurre uno studio più approfondito al riguardo sono facilmente reperibili e che la padronanza del linguaggio è fondamentale in campo giornalistico. La retorica rappresenta pertanto uno strumento di uso comune, per poter gestire al meglio una situazione particolarmente scomoda. Soprattutto da chi ci governa, secondo noi.
A tal proposito, abbiamo rivolto delle precise domande, in esclusiva per Sociologicamente, a Luca Massidda, PhD in Comunicazione e nuove tecnologie ed insegnante di Sociologia dei fenomeni politici e Sociologia della sicurezza sociale e della devianza presso l’Università degli Studi della Tuscia. Il suo ultimo libro, Post Politica. Morfologia di una campagna elettorale social, è stato pubblicato nel 2019 da FrancoAngeli. Si tratta, quindi, di uno dei massimi esperti del settore.
Quanto la questione migranti viene strumentalizzata dalle classi dirigenti?
“L’immigrazione, insieme all’anti-elitismo, ha rappresentato il principale tema della ultima campagna elettorale. In tutto il mondo occidentale, in realtà, la questione dei migranti si è imposta come issue intorno a cui si è articolato il conflitto politico tra populismo e anti-populismo. Anche le prossime elezioni europee saranno inevitabilmente segnate da questa dinamica. Il problema di base è che alla costruzione dell’immigrazione come emergenza sociale proposta dai leader e dai movimenti politici neo-nazionalisti non è stata contrapposta nessuna narrazione alternativa da parte delle forze politiche progressiste e moderate. Anzi, praticamente tutti gli attori politici si sono allineati a questa rappresentazione emergenziale dell’immigrazione, consentendo alle suddette forze di dettare l’agenda al sistema politico tutto e all’opinione pubblica, contando anche sulla complicità dei media, i quali si sono scoperti particolarmente sensibili, nella loro nuova configurazione “social”, ad un certo tipo di rappresentazione della realtà sociale. Un’incapacità narrativa che mi sembra abbia un peso enorme nella profonda crisi di identità – e di rappresentanza – che sta attraversando la Sinistra a livello europeo e globale. A questo proposito non credo che l’invocazione, piuttosto diffusa, di un populismo di sinistra, che possa sfidare la destra xenofoba sul tema della sovranità popolare, possa rappresentare una risposta politica davvero efficace. Dal mio punto di vista, non si tratta di contendere alla destra nazionalista lo spazio narrativo del populismo, quanto piuttosto di sottrarre al Mercato e alla grande narrazione egemone del neoliberismo l’indebita proprietà che da troppi anni può con successo rivendicare sull’ideale cosmopolita“.
Si potrà mai ammettere il fallimento del multiculturalismo ed abbracciare l’intercultura?
“L’educazione interculturale dovrebbe certamente essere al centro di questo nuovo progetto di cosmopolitismo sociale. Io non credo però che l’attuale nostalgia di nazionalismo, che porta con sé la riemersione di una diffusa sentimentalità xenofoba, debba essere ricondotta al fallimento del multiculturalismo. Non voglio negare gli errori che la prospettiva multiculturalista ha storicamente commesso nella sua costruzione dei rapporti tra culture altre, in particolare nella relazione, politicamente problematica, tra cultura di accoglienza e culture di immigrazione. Peraltro, nelle attuali condizioni (a partire da quelle economiche) del nostro tempo, la dichiarazione del fallimento del multiculturalismo mi sembra possa servire a legittimare un ritorno all’etnocentrismo piuttosto che aprire le porte al modello dell’intercultura. L’affermazione dell’intercultura non può infatti che passare da un progetto educativo di lungo periodo, il quale ha inevitabilmente bisogno di risorse (gli ultimi decenni, non solo nel nostro paese, non si sono di certo distinti da un punto di vista politico per l’investimento dedicato alle istituzioni scolastiche ed istruzione) e di una volontà politica. Quest’ultima deve il prima possibile prendere corpo in un soggetto politico capace di costruire una visione del mondo e della società alternativa a quella, oggi, preoccupantemente in crescita di consensi, costituita dal populismo e dalla xenofobia“.
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Giulia Marra & Marino D’Amore
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