Nel libro “La solitudine del morente”, Robert Elias mette in luce due delle strategie maggiormente utilizzate nella modernità per affrontare la morte: quella della medicalizzazione e quella dell’individualizzazione.
Società medicalizzate e società individualizzate
Nella società medicalizzata, la morte è vista come un tabù, da allontanare dalla quotidianità, e i malati da isolare dal resto della società. Essa viene vista come una sconfitta dell’uomo e come una dimostrazione dei limiti umani. Il malato viene quasi considerato un deviante e la malattia un’offesa per la società. Morire non è considerato come un fatto naturale, facente parte della vita, ma come qualcosa da combattere e guarire. Nella società individualizzata, invece, tipica dei paesi anglosassoni, vi è una rivalutazione della morte accompagnata dall’esaltazione dell’autonomia individuale; in queste società il malato è lasciato libero di scegliere come e quando sottoporsi alle cure mediche. La morte non viene allontanata dalla società, ma vi è il tentativo di conviverci.
Una via alternativa agli approcci appena esposti è l’ideologia che sta alla base delle cure palliative, nata negli anni ’60 in Inghilterra. Esse si occupano del trattamento dei pazienti affetti da una malattia terminale ma in modo totalmente diverso da come lo fa un ospedale o un reparto di terapia intensiva, dove la vita viene prolungata tramite macchinari specifici. Le cure palliative, infatti, cercano solo di migliorare la qualità della vita dei malati per mezzo dell’alleviamento del dolore sia fisico che psichico e di far esperire al paziente consapevole del suo destino, momenti unici.
E in Italia?
Nel nostro Paese la strategia ancora maggiormente diffusa è quella della medicalizzazione; le pratiche e le norme condivise facente parte di questo approccio hanno innescato e sostenuto un processo di istituzionalizzazione della morte, incorniciandola come un fatto organizzabile. Spesso, posticipare il decesso di un malato attraverso terapie intensive, serve per lasciare il tempo ai parenti di elaborare il lutto e accompagnarli gradualmente alla perdita del proprio caro. Chiaro esempio, questo, della volontà di addomesticare la morte in un avvenimento gestibile e controllabile.
Cure and care
Questa visione porta molti medici a porsi come unico obiettivo quello di guarire il paziente, tralasciando il prendersi cura di quest’ultimo; la contrapposizione ben evidenziata dalla lingua inglese tra “cure and care”. Si crea così una sorta di patto implicito tra medico e paziente, nel quale il primo cerca di guarire il malato e il secondo accetta di perdere la propria identità ed essere trattato solo come un corpo da salvare; il luogo stesso dell’ospedale evidenzia il processo di spersonalizzazione del malato, attraverso strutture asettiche e anonime.
Punti di vista
Nonostante la rigidità verso un cambiamento, negli ultimi anni in Italia, si è messo in discussione questa cornice data alla morte con un aumento di strutture per le cure palliative. Recentemente, inoltre, sono stati proposti dei corsi al personale medico per conoscere e confrontarsi con la visione che gli altri popoli e culture hanno sulla morte e sulla malattia. La recente approvazione alla camera del testamento biologico è sicuramente un passo avanti, in quanto “tutela il diritto alla vita, alla salute ma anche alla dignità e all’autodeterminazione“. Al di là di ogni considerazione personale, questa legge è importante perché lascia libere le persone di scegliere come attendere la morte; se vivere più a lungo o vivere meno ma in modo più dignitoso.
Giulia Borsetto