
Rileggendo oggi, a distanza di molti anni, la famosa intervista di Silvia Ronchey a James Hillman, un brivido ci corre lungo la schiena. Alle domande della giornalista, il fine critico della psicanalisi rispondeva mostrando comprensione per il fascino del terrorismo e della morte, così estranea al nostro sistema di certezze occidentale. Correva l’anno 1999, e l’Europa e gli Stati Uniti sembravano ormai al sicuro da sanguinosi e imprevisti attacchi terroristici.
La nascita della psicologia archetipale

Il breve libro L’anima del mondo uscì nella forma di una lunga intervista-dialogo con Silvia Ronchey. Hillman era stato direttore dell’Istituto C.G. Jung e brillante saggista. Nella sua teoria la psicologia analitica (di stampo junghiano) è ancora viziata da elementi di carattere freudiano – in particolare la sua dimensione “tragica” e sofoclea (cfr. il suo contributo Edipo il Tiranno in Kerenyi e Hillman,Versioni su Edipo 1992) – elementi che dovrebbero essere superati una volta per tutte. Coniò il termine psicologia archetipale per definire la sua teoria e il suo modello terapeutico basato sull’azione degli archetipi sull’anima. Gli archetipi – pensieri puri primigeni – erano già un elemento fondamentale nel pensiero e nella terapia di Carl Gustav Jung; l’intenzione di Hillman era di sviluppare ulteriormente la potenzialità del lavoro su di essi nella pratica terapeutica e nell’analisi dell’immaginario collettivo.
Chi è il “terrorista”?

Il brano della lunga intervista in cui Hillman definiva il Terrorista (trasformato, evidentemente, anch’esso in archetipo) come una figura mitica sostituta della medievale Mietitrice con la falce, suscitò non poco scalpore presso gli intellettuali dell’epoca. L’occidente era riuscito, dopo anni caotici, a tacitare i suoi mietitori autoctoni, indipendentisti, rossi e neri. Ma lo psicologo anticonformista e audace critico della cultura occidentale li rievocò quasi profeticamente, negli anni in cui il “sogno occidentale” sembrava ormai avverato. Il Terrorista hillmaniano si differenzia dal rivoluzionario per essere una specie di sacerdote della Morte, che officia i suoi sanguinosi rituali sull’altare della società.
“È un vendicatore solitario, profondamente disamorato, che vive nell’assenza di legge, nell’anomia, e rifiuta di vivere ancora in tale condizione. Preferisce la morte, mentre il rivoluzionario preferisce il cambiamento. Perciò il terrorista aggredisce il governo, lo Stato, i simboli della sicurezza, l’ordine, il contenimento, la difesa. Il sistema. Occorre dunque riflettere su un punto: come recuperare questa metafora, perché il sistema possa essere fatto saltare psicologicamente. Dove sono finite le ideologie degli anarchici, per esempio?”.
Già, le ideologie, le utopie, e il coraggio di lottare per una vita migliore. Potrebbe essere proprio ciò che ci manca per combattere il culto della morte e i suoi oscuri sacerdoti.
Per saperne di più: “Anarchia e sicurezza personale” di Silvia Ronchey
Barbara G.V. Lattanzi
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