Non so voi, nel vostro campo di attività, ma nel mio c’è un’autentica invasione dei focus group. Nella ricerca operativa, almeno in quella parte che si chiama “valutazione”, non esiste ricerca che non comprenda dei focus. E, notare, in non pochi casi i focus group sono la parte principale e – sissignori – a volte anche l’unica.
La tecnica più stupida
Ho sempre detto, da molti anni, che il focus group è la tecnica più stupida del mondo; non ha uno statuto epistemologico preciso, non offre alcun appiglio alla validità (attenzione: i puristi dicono che non si può parlare di ‘validità’ in questo caso), non offre, sostanzialmente, alcuno spessore alle informazioni raccolte. Mi spiego: in termini tecnici le informazioni hanno estensione e intensione (due concetti chiave, ne abbiamo parlato qui); nel caso dei focus, l’intensione (che equivale alla comprensione, alla complessità, alla profondità interpretativa) è veramente misera mentre l’estensione (che equivale alla generalizzabilità, all’analisi per variabili) è ampia ma vaga, perché a differenza di un questionario non abbiamo variabili da analizzare ma solo dichiarazioni rese in un piccolo gruppo.
I focus sono soggetti a innumerevoli fattori che ne accrescono la debolezza, fra i quali i più importanti sono:
• la selezione del gruppo; come è stata fatta? Che casualità vs. che vincoli ha avuto? Che conoscenza noi abbiamo di quei partecipanti? Li abbiamo scelti a caso (ci sono alcuni problemi) o li abbiamo selezionati (ci sono altri problemi); eccetera;
• le relazioni fra partecipanti; ci sono gerarchie, conoscenze reciproche pregresse che possono condizionare le dichiarazioni rese e gli atteggiamenti di alcuni verso altri?
• l’assoluta – ovvia – non generalizzabilità; attenzione: qualcuno decide di fare 4, 6, 10 focus group per sopperire a questo problema. Sbagliato. Anche se fate 1.000 focus group ciascuno è non generalizzabile; e non si possono fare medie fra risposte dei focus, comparazioni di alcun tipo… Ogni focus fa storia a sé;
• il paradigma del mal di pancia, poi, afferma che basta il mal di pancia di uno dei presenti (o avere litigato col coniuge, o avere ricevuto un SMS dall’amante, o avere pestato la pupù di un cane…) per modificare il suo atteggiamento nel corso del focus e, necessariamente, la sua relazione con gli altri partecipanti.
Dubitare di una ricerca
Indubbiamente quest’alea vale per tutte le tecniche di gruppo; ma generalmente altre tecniche compiono sforzi per dare un senso ai testi prodotti, mentre il focus group resta nudo di fronte alle proprie debolezze: noi abbiamo delle dichiarazioni estemporanee, cangianti, fragili che generalmente in pochissimi sanno analizzare in maniera approfondita (che è cosa complicata; generalmente si fa una specie di riassunto e ci si accontenta). Quindi: se il focus group è un approccio introduttivo, realizzato per esplorare un campo semantico non noto al ricercatore, e quindi utilizzato solo come occasione per una comprensione iniziale, alla quale far seguire un disegno di ricerca rigoroso, allora va bene. Pure se viene utilizzato per farsi aiutare da un gruppo di esperti in momenti topici, per esempio verso le conclusioni del lavoro, per trovare delle sintesi, può essere una scelta valida. Ma il focus group non è mai una buona scelta operativa come pilastro importante di una ricerca; e direi, di più, che se anziché un pilastro importante diventa un pilastro fondamentale, se è l’unico strumento utilizzato o il principale, allora si può dubitare della validità generale della ricerca prodotta.
Claudio Bezzi