In questo articolo analizzeremo quali sono le dinamiche che sono costrette ad affrontare le persone che cominciano un viaggio in cerca di fortuna, con un particolare riguardo alla situazione italiana. Con il supporto di dati, forniti dall’Istituto Nazionale di Statistica, l’analisi cercherà di essere il più empirica possibile. L’approccio sociologico verso queste dinamiche cercherà di svelarne la ratio. Nello specifico si cercherà di guardare agli ostacoli che i nativi pongono nei confronti dei “nuovi arrivati” e alla condizione di vita in cui si trovano, molto spesso inaspettatamente, queste persone. Inoltre, analizzando i dati, sarà facile evincere come le condizioni di svantaggio in cui si trovano gli immigrati vengono spesso mascherate, sia dai numeri che dalle leggi. I molti luoghi comuni che ci sono su questo argomento  verranno superati per cercare di capire la condizione sociale di persone che sentiamo molto distanti, anche per poter proporre in futuro delle soluzioni politiche.

Questione di terminologia

In primo luogo, dobbiamo dare il giusto significato alle parole, anche per evitare di fare confusione, vista la delicatezza dell’argomento. Quando si parla di “svantaggio“, facciamo un confronto sulla condizione lavorativa delle due categorie prese in esame, tenendo però presente il fatto che le diverse performance possono essere influenzate da fattori differenziali di partenza, ad esempio un diverso titolo di studio oppure una differente condizione familiare. Ciò che dobbiamo andare ad analizzare è invece la “penalizzazione“, ovvero a parità di condizioni comprendere quali sono le disuguaglianze che possono sussistere. Ad esempio due individui, uno immigrato e l’altro nativo, possono avere due trattamenti diversi sul mercato lavorativo, pur avendo le stesse identiche competenze. Le indagini sulla penalizzazione possono descrivere dei trend, ma non possono spiegare la motivazione che sta dietro certe differenze di trattamento e per comprendere ciò bisogna andare a vedere che cosa sia la discriminazione. Quest’ultima è frutto di un pregiudizio, ovvero un giudizio che viene dato prima dell’effettiva conoscenza di un individuo. In senso più tecnico lo possiamo descrivere come un vocabolo che serve a connotare in senso negativo qualsiasi atteggiamento sfavorevole, in particolare quando esso presenta caratteri di generalizzazione, ovvero quando implica rifiuto di metterne in dubbio la fondatezza e a verificarne la pertinenza e la coerenza.

Ostacoli e agevolazioni all’integrazione

Nonostante l’Italia mantenga un alto livello di discriminazione, se confrontata con gli altri paesi europei, il fatto che la maggior parte delle assunzioni vengano fatte tramite conoscenza o referenza da parte di un amico o parente fa si che l’effetto si attenui, seppur in minima parte. Questo peculiare meccanismo viene chiamato “effetto Lapiere“. Negli anni ’30 il sociologo americano Richard LaPiere fece un esperimento molto interessante. In quegli anni negli Stati  Uniti c’erano forti pregiudizi nei confronti dei cinesi. Decise di girare per più di 250 ristoranti con una coppia di cinesi per vedere se fossero stati accettati. I ristoratori non si fecero problemi ad accettarli, ma quando il sociologo mandò un questionario agli stessi esercenti per chiedergli se avessero accettato la coppia senza che ci fosse anche lui, questi risposerò di no. Alcuni studiosi ritengono che la discriminazione da parte dei nativi nei confronti di chi arriva potrebbe attenuarsi nel tempo, poiché gli immigrati trascorrendo del tempo nel paese di esodo e iniziando a conoscere la sua cultura cominciano a venire accettati, tuttavia esiste una controparte che esclude questa possibilità. Chi sposa le teorie dell’assimilazione segmentata ritiene che il livello di integrazione dipenda anche dal livello di discriminazione o accettazione da parte dei cittadini del paese di esodo.

Tra relazioni ed etnicizzazione

Nel complesso possiamo dire che gli immigrati sono spesso obbligati a sfruttare le loro relazioni interpersonali per cercare di trovare lavoro. Molto spesso sono gli stessi immigrati che si trovano già nel paese di arrivo a fungere da “appoggio” a quelli appena arrivati per cercare di trovare un impiego a qualche connazionale. Questo provoca inevitabilmente un’etnicizzazione del mercato del lavoro, ovvero non è difficile notare come certe tipologie di lavoro siano svolte da una singola etnia, come gli indiani sikh che hanno monopolizzato il lavoro di mungitore nelle stalle della pianura padana. Oltre agli aspetti che sottolineano un’impossibilità nell’ottenere un lavoro da parte di un immigrato, dovuti a delle dinamiche sociali, bisogna riconoscere che ci sono anche dei fattori oggettivi che lo svantaggiano. Ad esempio, come sostiene Rachel Friedberg, economista delle migrazioni, una mancata conoscenza della lingua del paese di esodo, un titolo di studio che non viene validato; e ancora, il fatto  che le competenze che gli sono state insegnate possono essere utili solo per il contesto economico, tecnico e sociale del paese in cui ha studiato e quindi non essere applicate in un sistema economico differente.

Gli immigrati hanno più lavoro?

Come osserviamo dalla tabella 1, anche se potrebbe sembrare controintuitivo, gli immigrati sono tendenzialmente più occupati, ma allo stesso tempo anche più disoccupati rispetto ai nativi. Ovviamente ci sono anche delle differenze dovute alla provenienza geografica, infatti, come vediamo dalla tabella, coloro che provengono dall’Asia orientale sono meno disoccupati rispetto agli italiani. Gli stranieri sono più occupati principalmente per una questione di età: la popolazione italiana è sicuramente molto anziana, quindi ci sono molti individui che sono al di fuori del mercato del lavoro, mentre all’interno della popolazione straniera ci sono molti adulti, dunque più facilmente impiegabili. Gli stranieri, lavorando di più, è normale che si trovino più spesso disoccupati. Per meglio comprendere questo ragionamento dobbiamo fare un distinguo tra due concetti: la popolazione disoccupata è quella che si propone sul mercato del lavoro anche se non ha ancora trovato un’occupazione corrispondente alla sua offerta; per contro, la popolazione inattiva è quella che non ha e non cerca un posto di lavoro, forse perché sfiduciata o per altri motivi.

Nord e sud

Cercando di andare a comprendere questi trend, possiamo fare un’analisi dividendo l’Italia, nel modo canonico, in una parte nord, sicuramente più produttiva e con un maggiore assorbimento del mercato del lavoro, e in una parte sud in cui le possibilità di lavoro sono nettamente inferiori. Il motivo per cui la maggior parte degli immigrati si trova al nord è infatti riconducibile a questo fatto e gli svantaggi e vantaggi che il mercato del lavoro del nord può offrire alle due categorie prese ad oggetto sono i medesimi. Nelle regioni settentrionali dunque il tasso di occupazione dei due gruppi è lo stesso. Uno svantaggio per i nativi lo si riscontra nelle regioni del meridione, anche se i lavori che si trovano a fare gli immigrati sono molto spesso poco tutelati, in nero e a volte legati al caporalato. Il maggior livello di occupazione non deve ingannare l’osservatore disattento poiché dal punto di vista della qualità del contratto di lavoro gli immigrati sono più svantaggiati e soggetti a lavori nell’economia sommersa, piuttosto che a contratti a tempo indeterminato.

Nessuna tutela sul posto di lavoro

Il fatto che abbiano più tempi indeterminati è soprattutto ricollegabile al lavoro all’interno delle piccole imprese, piuttosto che delle famiglie, in cui i datori di lavoro preferiscono contratti precari per avere una maggiore facilità nel licenziare in futuro, e altresì al fatto che i lavori stagionali, in cui gli immigrati sono maggiormente impiegati rispetto ai nativi, sono per loro natura precari. Gli immigrati sono speso attratti, per una duplicità di interessi, ai lavori nell’economia sommersa: i datori di lavoro hanno interesse ad assumere in nero per non pagare le tasse e i contributi, mentre il lavoratore immigrato, che ha spesso progetti di lavoro a breve termini, perché dopo aver guadagnato vorrebbe ritornare al paese natio ed ha un interesse maggiore a venire pagato di più e a non farsi pagare dei contributi di cui non potrebbe mai usufruire. Bisogna sottolineare che questa dinamica però svantaggia gli immigrati perché non vengono tutelati sul loro posto di lavoro.

Braccia da rubare all’agricoltura

Parlando di mercato del lavoro non possiamo escludere un fattore di estrema importanza: l’istruzione. In questo ambito l’indice di penalizzazione degli immigrati è davvero evidente: con il crescere del livello d’istruzione, mentre per i nativi e più difficile rimanere disoccupati, per lo straniero è più facile (tabella 2). Coloro che hanno una storia di immigrazione alle spalle possono avere anche livelli d’istruzione molto alti e il fatto che sia più facile che non trovino un posto di lavoro può anche essere legato alla loro non disponibilità nell’accettare subito un lavoro “cattivo”. L’assetto del welfare italiano, è risaputo, si basa su un impianto familistico. Questo non può che indirizzare gli immigrati verso lavori dequalificati. I lavori che si trovano maggiormente a svolgere le donne immigrate sono quelli legati ai servizi di cura, mentre per quanto concerne gli uomini vengono maggiormente dirottati verso lavori usuranti, come quello dell’operaio o del muratore. Il risultato è che abbiamo uno spreco di capitale umano non indifferente dovuto principalmente a tre fattori: in primo luogo un maggiore livello di istruzione nei paesi di origine, il fatto che ci sia un minore controllo e un aumento degli ingressi non autorizzati, correlato con aumento di una domanda per lavori più dequalificati. Questo fenomeno non è una peculiarità dell’Italia, potremmo dire che riguardi tutta l’Europa meridionale. Nei paesi dell’Europa settentrionale abbiamo magari meno opportunità di lavoro per gli immigrati, ma sicuramente molto più qualificato. La spiegazione a ciò può essere ricondotta a due peculiarità di questi paesi: un welfare più generoso (soprattutto per chi viene accolto con l’asilo politico) e una differenza strutturale nella domanda di lavoro: ci sono opportunità maggiori infatti di mettere in pratica quello per cui si ha studiato.

Tra discriminazione e problemi burocratici

In sintesi possiamo affermare che gli immigrati non sono sostitutivi rispetto ai nativi per una serie di motivi: dal fatto che svolgono lavori dequalificati ad un ostacolo molto più concreto come l’apprendere la lingua del paese di esodo. Come dice la teoria del capitale umano, lo svantaggio degli immigrati può essere sintetizzato nell’ordine di tre serie di motivi: in primis i titoli di studio che sono stati conseguiti nei paesi di origine possono aver fornito una preparazione inferiore, oltre che avere dei problemi nell’essere riconosciuti in un paese diverso, causa problemi burocratici; in secundis è utile sottolineare un’altra volta il problema della lingua che a volte può presentare delle ulteriori difficoltà per la differenza sostanziale con la lingua madre; e infine una mancata conoscenza del mercato del lavoro del paese di arrivo e una difficoltà nell’applicare le competenze acquisite nel contesto del paese di origine. La condizione degli esuli dunque non è rosea e il fatto di non poter mettere a frutto le proprie competenze, a causa di un mercato del lavoro che non garantisce mobilità sociale e discriminatorio, può influire anche sull’autostima di una persona.  Come si è visto dalla tabella, gli immigrati risultano più occupati, e da questo i bilanci pubblici italiani ne hanno un discreto vantaggio, poiché c’è un minore rapporto tra persone a carico e occupati, però il livello della qualità del lavoro è molto basso: molto spesso vengono sottopagati, non beneficiano delle casse di previdenza sociale, lavorano in nero e molto spesso in condizione di insicurezza, quando hanno contratti sono molto spesso precari, infine svolgono lavori dequalificati.

Uno spreco di capitale umano

Gli immigrati si trovano dunque impiegati in mansioni che, spesso, non rispecchiano le loro conoscenze: in Italia la maggior parte delle donne si occupano di lavori domestici e di cura, mentre gli uomini fanno per lo più gli operai o i muratori. Abbiamo uno spreco di capitale umano che è frutto anche dei maggiori livelli d’istruzione dei paesi in via di sviluppo. Ciò instaura un circolo vizioso per il quale i giovani italiani che hanno un alto livello d’istruzione trovano lavoro all’estero, creando così un vuoto che viene colmato dagli immigrati. Come dice Peri, abbiamo una sorta di esportazione di un gran numero di laureati e importazione di persone, altrettanto laureate, che provengono però da paesi arretrati. Le difficoltà nell’integrarsi nel mondo del lavoro dei paesi sviluppati, e in particolare dell’Italia, sono le più disparate e di diversa natura. In linea generale si può affermare che l’esule ha degli svantaggi, che possono essere spiegati da dinamiche sociali, come quella della discriminazione, ma anche da dinamiche esterne ai comportamenti degli individui, come il mancato riconoscimento di un titolo di studio.

Filippo Campo Antico

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