Gradualmente ma inesorabilmente, la pubblica opinione, complici i media assetati di ascolti, inizia visibilmente a stancarsi di provare reale compassione per i profughi. Bambini che muoiono in mare, la fretta di erigere muri, i campi di accoglienza gremiti, i governi che fanno a gara per aggiungere al danno dell’esilio, della salvezza rocambolesca, di un viaggio estenuante e pericolosissimo, la beffa di trattare i migranti come patate bollenti: questi abomini morali non sono più una novità né suscitano un certo grado di rimorso in chi legge e ascolta le storie dei sopravvissuti. Per chi vive nella società ospitante, i profughi sono sempre stati (come lo sono oggi) stranieri.

Generatori di ansia

Secondo il sociologo, filosofo e accademico polacco Zygmunt Bauman, gli stranieri tendono a dare ansia proprio perché “strani”, spaventosi nella loro imprevedibilità e ridicoli nella loro diversità, a differenza delle persone con cui interagiamo tutti i giorni, convinti di sapere esattamente cosa poterci aspettare da loro. Per quel che ne sappiamo (quindi pochissimo), potrebbe essere il nostro vicino, la nostra collega o l’insegnante di nostro figlio, a distruggere ciò a cui teniamo, mutilando o travolgendo lo stile di vita che ci è confortevolmente familiare. Lo straniero è l’esempio pragmatico di come la realtà venga costruita giorno per giorno attraverso ciò che faticosamente impariamo a conoscere e a cui non siamo disposti a rinunciare.

Stigmatizzare per non conoscere

La rinomata enciclopedia Treccani definisce il termine “stigma” (o “stimma”) come un’ “attribuzione di qualità negative a una persona o un gruppo di persone, soprattutto rivolta alla loro condizione sociale e reputazione: un individuo, un gruppo colpito da stigma psico-fisici, razziali, etnici, religiosi“». Abituati a elevare le nostre caratteristiche (vere o presunte) a unità di misura e valutazione dell’umanità altrui, tendiamo piuttosto facilmente a convincerci che la persona con uno stigma non sia propriamente “umana” (processo definito nelle scienze sociali di disumanizzazione). Il risultato immediato è il netto rifiuto di accettare socialmente coloro che vengono marchiati come “anormali” privandoli di qualsiasi opportunità di confronto. Vengono infatti respinti, espulsi, banditi dal gruppo a cui tacitamente o orgogliosamente aspirano, costretti ad accettare il verdetto collettivo d’inadeguata inferiorità e riconoscere la propria colpevole incapacità di rispettare uno standard unanimemente contrattato ed inequivocabilmente legittimo. È il chiaro esempio di come la cittadinanza (intesa dal punto di vista di giuridico) dipenda molto spesso da una manciata di consensi.

L’intolleranza genera intolleranza

Bauman, nella sua opera “Stranieri alle porte”, citando il sociologo di origine statunitense Erving Goffman in “Stigma: Notes on the Management of Spoiled Identity“, afferma che sarebbero tre le possibili reazioni di chi viene marchiato o associato al difetto fisico o culturale genericamente attribuito a quel gruppo. La prima è un doloroso colpo al rispetto di sé: l’umiliazione e la vergogna portano a un insopportabile senso di denigrazione della propria persona e delle caratteristiche che ne definiscono la soggettività e, se chi riceve lo stigma accetta il verdetto della “società più ampia”, sfociano in una depressione invalidante causa, in molti casi, di vere e proprie patologie psicologiche/psichiatriche irreversibili. La seconda reazione, appartenetemene opposta alla precedente, consiste nel leggere lo stigma come un affronto immeritato, lesivo e infamante, che richiede e giustifica una rivalsa abbastanza forte da annullare il verdetto della “società più ampia” e riappropriarsi dell’autostima di cui si è stati defraudati: a ciò si accompagna, prima o poi, il ribaltamento della gerarchia di valore proclamata e praticata da quella stessa “società più ampia”. La terza reazione riguarda chi non si sente toccato dalla consapevolezza di non riuscire ad apparire esteticamente e/o a comportarsi come la “società più ampia” richiede e, protetto dalle proprie credenze sull’identità, si considera un essere umano perfettamente normale convincendosi che siano gli altri a non esserlo soprattutto per via della loro crudeltà. Persuadere se stessi della propria “normalità” non è una conquista individuale poiché l’essere umano è un animale sociale: tutto ciò a cui assegna un valore è parte integrante del contesto in cui vive e con cui interagisce. L’essere convinti, richiede un’affermazione di gruppo che non tutti pronunciano con successo: solo la conferma di altri significativi può mettere in salvo quella convinzione, rendendola immune alle opinioni e azioni della “società più ampia”. Naturalmente, chi segue lo schema di questa reazione è alla febbrile ricerca di una società che soddisfi tali requisiti e che al contempo sia disposta a lasciarlo entrare e a impegnarsi nella difesa collettiva dello status rivalutato che si pretende. L’individuo tende quindi ad assumere un atteggiamento “camaleontico”, del tutto incline alla manipolazione, in cui favorisce determinati comportamenti (evitandone di buon grado invece altri) con l’intento di provocare simpatica ed ammirazione. Una volta suscitati tali sentimenti positivi in chi lo circonda, qualsiasi sia stato il loro costo in fatto di energie, risorse finanziarie ed affetti, l’individuo può considerarsi solo in parte accettato dalla “società più ampia” poiché ha dovuto rinnegare, magari non completamente, se stesso e le proprie radici culturali.

Riflessioni di Zygmunt Bauman (1 di 3)

Giulia Marra

Print Friendly, PDF & Email